TESI DI PSICOFISIOLOGIA

10.04.2014 23:26

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CATANIA

FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA

DOTTORATO DI RICERCA IN MEDICINA NEUROVEGETATIVA

COORDINATORE: PROF. G. CRIMI

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DOTT.SSA G. CULTRERA

 

 

 

 

 

PSICOFISIOLOGIA E CARDIOLOGIA PSICOSOMATICA

 

Piano di ricerca su etiopatogenesi e terapia delle affezioni cardiologiche

 

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TESI   DOTTORATO

 

 

 

 

 

 

 

                                                     TUTOR

CHIAR.MO    PROF. V. RAPISARDA

____________________________________

 

TRIENNIO 1996/97-1998/99

 

INDICE

 

INTRODUZIONE

Pag. 3

 

CAPITOLO I     MEDICINA PSICOSOMATICA

           

 

Paragrafo 1     Sistema Nervoso Vegetativo

Pag. 7

           

Paragrafo 2     Equilibrio mente-corpo

Pag. 13

 

Paragrafo 3     Stress, conoscenza, malattia

Pag. 15

 

Paragrafo 4     L’ipertensione arteriosa essenziale

Pag. 19

 

Paragrafo 5     Struttura di personalità e rischio cardiovascolare

Pag. 21

 

CAPITOLO II     NEUROSCIENZE E TERAPIA COGNITIVA

           

 

Paragrafo 1     Teoria generale dei sistemi e complessità autorganizzata

Pag. 26

 

Paragrafo 2     La prospettiva motorio-evolutiva della conoscenza umana

Pag. 31

 

Paragrafo 3     Costruzione del Sè come processo interattivo e dialettico ed                                                                

                       equilibrio psicosomatico

Pag. 35

 

Paragrafo 4     L’ottica sistemico-processuale nello sviluppo psicosomatico del

                       sintomo

Pag. 37

 

Paragrafo 5     L’essere umano come organismo complesso e la prospettiva

                       psicosomatica nell’intervento medico

Pag. 38

 

CAPITOLO III     LA PSICOFISIOLOGIA NELL’OTTICA COSTRUTTIVISTA

        E  COMPLESSA

 

 

Paragrafo 1     Psicofisiologia e concezione evoluzionistica dell’emozione

Pag. 42

 

Paragrafo 2     Metodologia dell’indagine psicofisiologica e valutazione in                                  

                       medicina psicosomatica

Pag. 44

 

Paragrafo 3     Assessment psicofisiologico

Pag. 48

 

Paragrafo 4     Biofeedback e trattamento delle malattie cardiovascolari

                       psicosomatiche

Pag. 50

 

Paragrafo 5     La metodologia dell’Ambulatory Assessment nei Field Studies

Pag. 54

 

CAPITOLO IV     ASSESSMENT MULTIMODALE E TERAPIA COGNITIVA

                               Un disegno sperimentale per il trattamento di una patologia

                                cardiologica psicosomatica: l’ipertensione arteriosa essenziale

           

 

Introduzione

Pag. 58

 

 

Metodo

Pag. 59

 

Disegno

Pag. 59

 

Soggetti

Pag. 61

 

Stimoli

Pag. 62

 

Apparecchiatura

Pag. 64

 

Procedimento

Pag. 66

 

Risultati

Pag. 69

 

 

Discussione

Pag. 72

 

         

 

 

BIBLIOGRAFIA

Pag. 132

INTRODUZIONE

 

Il termine “stress” fu utilizzato da Selye per la prima volta nel 1936 per definire la reazione biologica caratterizzata dal comune stato di attivazione dell’asse ipofisi-corticosurrene.

La reazione di stress viene indotta dall’attivazione emozionale in risposta a determinate situazioni-stimolo e si manifesta contemporaneamente sia con risposte biologico-somatiche che psicologico-comportamentali.

In determinate condizioni, la reazione di stress può perdere il suo significato funzionale di natura adattiva e rappresentare una possibile fonte di rischio per la salute sia somatica che mentale.

Oggi, ogni individuo è sottoposto a molteplici sollecitazioni; sono richieste maggiori competenze e bisogna essere in grado di far fronte in modo adeguato agli stimoli che provengono dall’ambiente. Lo studio dell’uomo nella dinamica dei suoi processi biologici e mentali fa emergere chiaramente che se, da una parte lo “stress” è una componente essenziale del fenomeno evolutivo della vita, dall’altra, quando non opportunamente gestito, può diventare il presupposto di disturbi psichici e psicosomatici.

La moderna ricerca scientifica polarizza sempre più spesso l’attenzione sulla individuazione delle disfunzioni biologiche, che rispondono molto bene alla terapia farmacologica, e contemporaneamente sull’influenza significativa che fattori individuali e ambientali possono avere nella slatentizzazione di determinati disturbi.

Lo studio del cervello e delle sue interazioni con gli altri sistemi, in rapporto allo studio ed all’analisi di quadri psicopatologici poliedrici, quali le malattie psicosomatiche, rappresenta, oggi, un campo molto attivo della ricerca scientifica.

Le neuroscienze apportano dati fortemente innovativi alle conoscenze acquisite in campo scientifico, anche se si è ancora lontani dall’essere giunti alla formulazione di un modello esaurientemente esplicativo delle strutture e delle funzioni biologiche del cervello e della interazione con la mente nel corso della filogenesi e dell’ontogenesi dell’uomo.

Negli ultimi anni l’orientamento generale della Scienza ha indotto lo sviluppo di nuovi modelli teorici e sperimentali, che hanno proposto un’articolazione interdisciplinare e complessa, come uno degli approcci più potenzialmente fertili in campo scientifico. L’adozione di un atteggiamento interdisciplinare e la maturazione di un approccio sistemico, in un’ottica complessa, rende possibile lo studio del sistema nervoso e della organizzazione della conoscenza nelle dinamiche del loro funzionamento in rapporto con l’ambiente.

Infatti, mentre il XX secolo si avvia alla conclusione, le preoccupazioni legate all’ambiente hanno assunto un’importanza preminente. Più si studiano i problemi più importanti del nostro tempo tanto più ci si rende conto che non è possibile comprenderli isolatamente. Sono problemi sistemici, di conseguenza, interconnessi e interdipendenti.

La medicina psicosomatica compendia la necessità di avere una comprensione globale dell’uomo e propone una differente modalità di approccio allo studio della malattia, che impone un rapporto colloquiale tra le diverse specializzazioni al fine di prestare attenzione a tutte le componenti biologiche, psicologiche e relazionali dell’uomo. In quest’approccio complesso qualsiasi evento viene considerato come la convergenza di più fattori che interagiscono e si integrano in questo modello bio-psico-sociale, escludendo qualsiasi riduzionismo interpretativo.

Il problema della psicogenesi è collegato all’antica dicotomia tra soma e psiche. In realtà, in una visione complessa dell’uomo, dobbiamo accettare che fenomeni psicologici e somatici si manifestano nel medesimo organismo come due aspetti di un unico processo. In una prospettiva psicosomatica, quindi, gli eventi hanno sempre una natura complessa e possono essere studiati ed affrontati con approcci diversi, che, a volte, possono sembrare contraddittori.

Dall’integrazione equilibrata delle diverse modalità di valutazione e dalla scelta di interventi pertinenti e mirati nasce la capacità come medici di curare patologie, che, inevitabilmente, presentano una matrice complessa.

Una vasta letteratura ha documentato, negli ultimi anni, il rapporto tra stress e patologie psicosomatiche, che colpiscono il sistema cardiovascolare. Gli studi condotti riguardano, oltre l’ipertensione arteriosa, anche le coronaropatie, l’infarto miocardico acuto e la morte cardiaca improvvisa. E’ noto che in condizioni di stress la risposta psicofisiologica dei soggetti ipertesi non si caratterizza tanto per l’ampiezza della risposta pressoria, quanto per la persistenza abnorme di tale risposta. Il fattore critico che diversifica gli ipertesi dai normotesi non è il livello di risposta a stimoli stressanti, ma il prolungamento della reazione che hanno gli ipertesi a questi stimoli. Differenze nella risposta cardiovascolare in presenza di stimoli stressanti sono evidenziate in alcuni studi che utilizzano soggetti bordeline o con ipertensione di grado lieve.

L’ipereattività sembrerebbe essere un fenomeno specifico dello sviluppo iniziale dell’ipertensione, in accordo con quanto si riscontra nei figli sani di genitori ipertesi. Si tratterebbe, inoltre, di una ipereattività altamente selettiva: solo alcuni stressors sarebbero in grado di differenziare la risposta di soggetti bordeline e con ipertensione lieve da quella dei soggetti normotesi.

L’assessment psicofisiologico ha una certa utilità nella individuazione precoce dei patterns disfunzionali e nella successiva pianificazione dell’intervento.

Nello studio di questi campioni di popolazioni sono stati individuati due tipi di eventi stressanti coinvolti nella etiopatogenesi di queste patologie: eventi della vita sociale ed eventi della vita lavorativa. I fattori stressanti della vita lavorativa, ad esempio, sono risultati associati, anche, ad un maggior rischio di complicanze nel decorso dell’infarto miocardico acuto. Gli eventi della vita affettiva che più sono chiamati in causa sono rappresentati dalla morte delle persone care e dalla rottura di legami affettivi. Tuttavia, ci si è sempre più resi conto come anche la struttura di personalità del soggetto colpito da patologia cardiovascolare riveste un ruolo importante. Il pattern di personalità di tipo A, il cosiddetto Type a coronary-prone behavior descritto da Friedman & Rosenman, sarebbe associato ad un elevato rischio di sviluppo di una malattia coronarica. La presenza di un’elevata tensione, l’irritabilità, il bisogno di controllo sull’ambiente, l’aggressività repressa, l’elevata competitività, l’impazienza, l’ipervigilanza, il senso di urgenza del tempo, l’elevato coinvolgimento lavorativo, l’incapacità di rilassarsi e prendere delle pause sono tracce idiosincrasiche di una personalità che accumula un rischio maggiore di incorrere in accidenti cardiovascolari e di assecondarne una prognosi tendenzialmente infausta. Notevole incoraggiamento nella terapia di queste patologie ci viene dalla possibilità di indurre un cambiamento in questi tratti disfunzionali della personalità del soggetto a rischio, sia nella profilassi che nella terapia, attraverso appropriati approcci psicoterapici, come oramai parecchi studi clinici controllati tendono a dimostrare.

Nello svolgimento di questa tesi ho volutamente sottolineato l’importanza di inserire la medicina psicosomatica nel frame teorico della complessità. Non a caso l’architettura generale di questo progetto di ricerca dà ampio spazio al tentativo di integrare molteplici approcci allo studio della malattia psicosomatica, evitando ogni banalizzazione del disturbo e di tutto ciò che non viene spiegato adeguatamente secondo i rigidi schemi della medicina tradizionale. Per tale motivo ci si è soffermati su un’ampio capitolo introduttivo che sintetizza le competenze che ci provengono dalla ricerca biologica, con lo studio del sistema neurovegetativo, visto nella sua interrelazione complessa con il cervello ed il sistema immunitario. E’ proprio dagli studi più biologici che proviene la visione di questi sistemi intercorrelati come di una vasta “rete psicosomatica”, che ancora non conosciamo adeguatamente nei suoi molteplici aspetti strutturali e funzionali. Da questa premessa, si è passati all’approfondimento di quelle teorie sistemiche e della complessità che, oggi, vanno per la maggiore nel campo delle neuroscienze e che dovrebbero rappresentare il background teorico a cui agganciarsi per osservare e studiare l’uomo come sistema complesso-autorganizzato che interagisce con l’ambiente.

Dopo avere sviluppato la prospettiva psicosomatica nell’intervento medico, secondo un’ottica complessa, si è passati alla descrizione sistematica dell’applicazione di tecniche di indagine psicofisiologica, secondo un’ottica costruttivista e complessa, come strumento di indagine nella medicina psicosomatica. Si valorizza l’impiego dell’assessment psicofisiologico e psicologico come momento di osservazione fondamentale del soggetto in trattamento, oltre che del biofeedback come tecnica comportamentale che nell’approccio psicoterapico permette di ottenere risultati incoraggianti in riferimento ai parametri psicofisiologici disfunzionali, che rispondono positivamente a questo tipo di intervento.

Il piano di ricerca di questa tesi di dottorato ha compreso lo studio della etiopatogenesi e della terapia di una affezione cardiologica psicosomatica quale l’ipertensione arteriosa essenziale. Presso il laboratorio di Psicofisiologia dell’Istituto di Clinica Psichiatrica dell’Università di Catania ci siamo impegnati nello sviluppo e nell’applicazione sistematica di un intervento complesso, che concilia la competenza psicofisiologica con un approccio cognitivo-comportamentale volto a migliorare la qualità di vita del soggetto, sulla base anche degli orientamenti offerti recentemente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’approccio multimodale e complesso, infatti, che viene presentato nell’ultimo capitolo è articolato in due momenti fondamentali: uno di assessment psicometrico-psicofisiologico e l’altro di trattamento psicoterapico.

Sono stati testati sistematicamente campioni di pazienti cardiologici, affetti da ipertensione arteriosa essenziale, in laboratorio attraverso la realizzazione di profili di stress, con la registrazione simultanea di tre parametri psicofisiologici, electrodermal activity, pulse trasmission time ed heart rate, che ci permettono di individuare i patterns psicofisiologici disfunzionali, e di profili psicologici attraverso la somministrazione di tests standardizzati, che ci hanno permesso di valutare più obiettivamente le caratteristiche della personalità del soggetto.

Ci siamo impegnati nell’applicazione di una nuova metodologia, recentemente sviluppata negli Stati Uniti, il “field psychophysiology monitoring”, che offre la grande possibilità di studiare il soggetto in un setting di vita reale e di addestrarlo a migliorare le sue competenze e le sue capacità di coping nella gestione della sintomatologia cardiovascolare, soprattutto in particolari momenti di crisi.

Nostro obiettivo è stato studiare l’eventuale validità, affidabilità ed utilità di queste tecniche di field psychophysiology. La ricerca condotta ha pienamente convalidato l’affidabilità dell’applicazione e dell’uso di apparecchiature di field psychophysiology.

Momento di autosservazione fondamentale per noi ricercatori è stato valutare il ruolo che l’approccio cognitivista bio-psico-sociale e l’applicazione dell’assessment multimodale e complesso psicometrico-psicofisiologico può avere nel trattamento di una patologia cardiologica psicosomatica, come l’ipertensione arteriosa primitiva.

A nostro parere i dati sperimentali emersi da questo studio sono di notevole interesse dal punto di vista della profilassi e della ricerca scientifica rivolta all’inquadramento di una patologia complessa, quale quella trattata per l’interrelazione delle tante variabili, di cui necessariamente dobbiamo tenere conto nella strutturazione di un approccio terapeutico valido per la cura del paziente.

La ricerca scientifica, a nostro parere, dovrebbe sempre più potenziare gli sforzi sperimentali, al fine di individuare quelle variabili, dalla cui correzione può scaturire la prevenzione della malattia. Di conseguenza, risulta necessario incoraggiare gli studi su vaste popolazioni di campioni in modo da mettere a punto modelli validi di profilassi nella popolazione in generale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO I

 

MEDICINA PSICOSOMATICA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.1

 

SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO

 

L’ambiente interno dell’organismo umano è regolato in grande misura dal sistema nervoso vegetativo, dalle ghiandole endocrine e dall’attività integrata di questi due sistemi. Le funzioni viscerali e omeostatiche essenziali per la vita e la sopravvivenza della nostra specie sono di natura involontaria. In un’ottica evoluzionistica, per spiegare il motivo per cui la natura ha tenuto separate queste attività dalla volontà, si potrebbe ipotizzare che la mente occupata in problematiche di tipo discriminativo, speculativo o morali non debba essere disturbata da attività meno nobili quali respirare, regolare il battito cardiaco, mangiare o dormire.

Con ogni probabilità l’aspetto più significativo del sistema nervoso vegetativo è rappresentato dal fatto che esso è per la maggior parte collocato al di fuori dell’asse cerebro-spinale (Appenzeller, 1990). I compiti del sistema nervoso vegetativo si possono inscrivere, da un punto di vista biologico unitario, in due sfere funzionali, delle quali l’una permette le relazioni con l’ambiente circostante e l’altra adempie alle funzioni che servono per il mantenimento dell’organismo. La porzione ecotropa raccoglie le variazioni delle condizioni ambientali e influisce sull’ambiente stesso per mezzo della muscolatura volontaria. La porzione idiotropa riceve, invece, gli stimoli provenienti dallo stesso organismo e li trasforma in impulsi ad essi corrispondenti. Poichè esso crea le premesse della vita vegetativa, viene denominato sistema nervoso vegetativo. Il sistema nervoso vegetativo (idiotropo) ed il sistema nervoso somatico (ecotropo) sono così strettamente correlati tra loro sia per quanto riguarda l’organizzazione strutturale, che per quanto riguarda il campo d’azione funzionale (Bennet, 1972), per cui nessuno dei due può adempiere completamente la sua funzione senza l’intervento dell’altro. Rapporti, particolarmente stretti, esistono tra processi vegetativi e processi psichici. I processi vitali dipendenti dal S.N.V. decorrono anche in completa esclusione della coscienza (Ehinger, 1966). Questa autonomia è, però, relativa, poichè il S.N.V. non è del tutto indipendente, bensì strettamente correlato al S.N.C., in quanto non soltanto ha in esso la sua origine, ma viene da esso controllato, con impulsi eccitatori ed inibitori. Il S.N.V. è, infine, supportato dal sistema endocrino.

L’osservazione che l’attività degli organi interni è regolata da una duplice ed antagonista innervazione, stimolante e deprimente, ha portato alla suddivisione del S.N.V. in due porzioni: il simpatico (ortosimpatico) ed il parasimpatico, le quali influiscono antagonisticamente sugli organi interni (Pick, 1970). Il simpatico ed il parasimpatico terminano, di regola, negli stessi organi e vi esercitano una duplice funzione, eccitante o paralizzante; l’unica eccezione è l’iride (il simpatico innerva il muscolo dilatatore della pupilla ed il parasimpatico il muscolo sfintere di essa). L’effetto sull’organo non dipende soltanto dallo stato d’eccitazione del simpatico e del parasimpatico, ma anche dallo stato funzionale di esso. La trasmissione degli stimoli non avviene direttamente, ma attraverso la mediazione di sostanze trasmettitrici che si formano, da sostanze inattive, sul luogo d’azione e vengono successivamente distrutte da determinati enzimi; l’effetto del simpatico si basa sulla liberazione delle catecolamine, mentre quello del parasimpatico sulla liberazione di acetilcolina. L’effetto delle sostanze attive sul S.N.V. non dipende da un’influenza sulle terminazioni vegetative (Cavallotti et al., 1982), ma da un effetto diretto sugli organi stessi oppure da una depressione dell’attività delle sostanze mediatrici, per mezzo di un’attivazione degli enzimi che le distruggono. Il simpatico è deputato all’incremento dell’attività organica attuale, per cui, attraverso i suoi effetti di acceleramento del battito cardiaco, di attivazione della respirazione, di aumento del metabolismo basale per acceleramento dei processi dissimilativi, di potenziamento delle funzioni motorie, di allargamento delle pupille, ecc., esso mette a disposizione dell’organismo, nel momento del bisogno, i mezzi necessari per l’aumento del lavoro verso l’ambiente esterno (Livingston et al., 1978). Il parasimpatico, invece, agisce in modo completamente opposto; economizza il lavoro rallentando i battiti cardiaci, abbassando il metabolismo basale, accelerando le funzioni intestinali, compresa l’evacuazione delle feci e delle urine, restringendo le pupille, inducendo una certa adinamia della muscolatura scheletrica e dilatando i vasi al fine di immagazzinare riserve di energia per ulteriore lavoro (Mac Lean, 1970). Il simpatico ha una prevalenza d’azione di giorno ed il parasimpatico di notte. Dato che gli organi cavi, quali il cuore, lo stomaco, l’intestino, la vescica e l’utero, mostrano una certa indipendenza funzionale e ricevono dai loro nervi vegetativi soltanto impulsi regolatori, i plessi nervosi, forniti dai gangli che si formano nelle pareti di questi organi, sono stati considerati, sotto la denominazione di sistema nervoso intramurale (o sezione enterica), come una terza parte del S.N.V.

 

MORFOLOGIA DEL SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO

Il substrato strutturale del S.N.V. (Cajal, 1911) comprende il complesso di tutti quei neuroni afferenti ed efferenti, comprese le strutture di rivestimento e di conduzione, i quali regolano i processi vitali dell’organismo, indipendenti dalla volontà. Nel S.N.V. (Gabella, 1976) il più semplice arco di conduzione è costituito sempre da tre neuroni. A differenza del sistema somatico, le fibre del ramo efferente che si originano dalle cellule radicolari situate nel S.N.C. non si prolungano sino al territorio della loro innervazione, ma terminano in una stazione intermedia gangliolare; le fibre che raggiungono gli organi periferici sono quelle che si originano dalle cellule gangliari di queste stazioni intermedie (Nauta, 1972). Tra neuroni pregangliari e postgangliari si attuano contatti sinaptici di varia natura.

 

SIMPATICO

Il simpatico comprende diverse sezioni che possiamo così descrivere: 1. il tronco del simpatico, 2. i rami comunicanti, 3. i rami che originano dal tronco del simpatico. Il tronco del simpatico è costituito da due cordoni formati da una catena di gangli (gangli vertebrali) che sono collegati tra loro dai fasci intergangliolari. I tronchi del simpatico convergono in corrispondenza dell’apice del coccige e si riuniscono formando il ganglio coccigeo (Bennet, 1972). I rami comunicanti appaiono come rami di collegamento che uniscono il tronco del simpatico ai nervi spinali. Topograficamente il tronco del simpatico si può dividere in 4 porzioni: cervicale, toracica, lombare e sacrale. Ogni catena del simpatico contiene circa 24 gangli (Mitchell, 1953). Ai gangli della catena laterovertebrale giungono le fibre nervose, originatesi dai centri vegetativi del midollo spinale. Il mediatore chimico della neurotrasmissione tra neurone pregangliare e postgangliare è l’acetilcolina, che interagisce con un recettore nicotinico posto nella membrana cellulare della cellula nervosa postgangliare. I neuroni gangliari del simpatico sono caratterizzati da un elevato contenuto di catecolamine e di enzimi coinvolti nella loro sintesi. I neuroni non adrenergici hanno, come mediatore l’acetilcolina o alcuni peptidi. I neuroni colinergici sono di natura simpatica e innervano soprattutto gli arti e presiedono alla regolazione del flusso sanguigno nei muscoli scheletrici e al controllo della secrezione del sudore. Viene ormai accettato da tutti gli autori che una parte dei neuroni della catena laterovertebrale del simpatico contenga più di un neurotrasmettitore (Lefkowitz et al., 1990).

 

PARASIMPATICO

Il parasimpatico comprende quelle porzioni del S.N.V. le cui fibre non decorrono per il tronco del simpatico e le cui terminazioni vengono paralizzate dall’atropina e dalla nicotina; esso non è delimitabile anatomicamente come sistema indipendente, dato che le sue fibre non costituiscono nervi isolati, ma si servono di altri nervi, a eccezione del nervo vago e dei nervi pelvici (Ciriello et al., 1987). Le fibre parasimpatiche efferenti innervano in parte gli organi interni con i loro vasi, in parte i vasi, le ghiandole ed i muscoli lisci della cute (Bulbring & Branding, 1970). In esse si distinguono fibre pregangliari e postgangliari ed è caratteristico il fatto che, mentre le fibre pregangliari sono relativamente lunghe, quelle postgangliari sono corte. Il parasimpatico viene suddiviso in encefalico e sacrale (Furness et al., 1987). L’encefalico comprende 3 centri nucleari che si susseguono procedendo verso il basso (superiore, medio ed inferiore). Il parasimpatico sacrale si estende dal II al IV segmento sacrale; le fibre lasciano il midollo spinale per le radici ventrali dei nervi sacrali innervando il terzo caudale del colon e tutti i tratti dell’intestino fino all’ano, gli organi del bacino e gli organi genitali esterni.

 

PLESSI PREVERTEBRALI O PREVISCERALI

Si definiscono, così, i plessi di fibre nervose e gangli deputati all’innervazione efferente ed afferente dei visceri della cavità toracica, di quella addominale e della pelvi. Alla costituzione di questi plessi contribuiscono sia il sistema simpatico che il parasimpatico (Appenzeller, 1990).

 

CELLULE CROMAFFINI

A livello del S.N.V. si osservano gruppi di elementi che possiedono la stessa origine embriologica del simpatico: le cellule cromaffini; in alcuni casi esse sono autonomamente riunite e formano strutture ben differenziate, in altri casi elementi cromaffini sono mescolati ai neuroni nella compagine di un ganglio della catena laterocervicale. Tali cellule sono innervate da fibre sicuramente colinergiche (Korner et al., 1964).

 

IL SISTEMA INTRAMURALE

I plessi nervosi posti sulle o nelle pareti degli organi cavi prendono il nome di plessi intramurali e possiedono, dal punto di vista funzionale, una certa autonomia verso il simpatico. Tali plessi vanno considerati come una stazione terminale sia per il simpatico che per il parasimpatico. Il più esteso sistema intramurale è rappresentato dai plessi che innervano il tubo digerente, il plesso mienterico di Auerbach, localizzato tra due strati muscolari intestinali, ed il plesso sottomucoso di Meissner, localizzato a livello della sottomucosa (Pick, 1970).

 

LA NEUROTRASMISSIONE NEL SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO

Tra i trasmettitori più conosciuti troviamo l’acetilcolina. I neuroni che sono in grado di sintetizzare, immagazzinare e liberare acetilcolina sono detti neuroni colinergici. In essi è presente l’enzima deputato alla sintesi dell’acetilcolina, l’acetilcolinatrasferasi, nonchè quello deputato all’inattivazione della sostanza, l’acetilcolinesterasi. Essa viene rilasciata, in seguito all’arrivo dell’impulso nervoso, in corrispondenza della parte terminale di tutte le fibre pregangliari, sia nei gangli ortosimpatici che nei gangli parasimpatici, di tutte le fibre postgangliari parasimpatiche e di alcune di quelle ortosimpatiche. L’acetilcolina è, anche, il trasmettitore chimico degli impulsi nervosi che raggiungono le fibre muscolari scheletriche. Vi sono due tipi di recettori per l’ACh, nicotinici e muscarinici, a livello delle fibre muscolari lisce e striate ed a livello delle cellule ghiandolari.

Altro gruppo di neurotrasmettitori sono le monoamine (Falck, 1962). Come regola generale, le fibre postgangliari ortosimpatiche rilasciano noradrenalina dalle loro terminazioni, ma vi sono delle eccezioni. Le ghiandole sudoripare e alcuni vasi sanguigni muscolari sono innervati da fibre postgangliari di tipo ortosimpatico, ma le loro terminazioni rilasciano acetilcolina. Mentre sembra dimostrato che la midollare del surrene possa secernere sia adrenalina che noradrenalina, le terminazioni simpatiche postgangliari sono in grado di liberare soprattutto noradrenalina. I recettori per le monoamine sono di due tipi e classificati come alfa e beta. In generale i recettori alfa mediano la vasocostrizione, il rilasciamento della muscolatura intestinale e la dilatazione pupillare; i recettori beta mediano la vasodilatazione, specialmente nei muscoli, il rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale e l’aumento della frequenza e della contrattilità cardiache. Ciascuno di questi recettori è, a sua volta, suddiviso in due tipi. I recettori a1 sono postsinaptici; i recettori a2 sono presinaptici e, se stimolati, riducono il rilascio del trasmettitore. I recettori b1 sono limitati al cuore e la loro attivazione aumenta la contrattilità  e la frequenza cardiaca. La stimolazione dei recettori b2 dà luogo a un rilascio della muscolatura liscia dei bronchi e della maggior parte delle altre sedi (Lefkowitz et al., 1990).

Oltre a quest’ultima, anche il suo precursore, la dopamina, sembra sia un neurotrasmettitore autonomo a livello del S.N.V. Anche la serotonina sembrerebbe avere tale funzione, ma limitatamente ad alcuni distretti del tubo digerente e forse a livello del distretto circolatorio cerebrale (Polinsky, 1992).

Fin dagli anni ‘60 numerose ricerche fisiologiche avevano dimostrato l’esistenza, a livello vegetativo, di alcuni meccanismi inibitori indipendenti dai sistemi adrenergici e colinergico; tuttavia, non si riscontravano dati certi circa la reale esistenza e, soprattutto, la localizzazione di strutture nervose nè adrenergiche nè colinergiche (Axelsson, 1971). L’identificazione di tali strutture ha fornito una indiretta conferma morfologica alle osservazioni fisiologiche che supponevano l’esistenza di fibre nervose, il cui neurotrasmettitore fosse l’ATP o un altro nucleotide purinico. Tali fibre sono state denominate purinergiche e sembra che funzionalmente abbiano significato antagonista rispetto alle fibre nervose adrenergiche. Una neurotrasmissione purinergica è stata dimostrata a livello intestinale, nella vescica e nella colecisti, nonchè nella cornea.

Ma oltre all’esistenza di questi neurotrasmettitori a struttura molecolare piuttosto semplice vengono identificati in questi ultimi anni, con sempre maggiore frequenza, i polipeptidi presenti nelle fibre nervose (Cohen, 1970). Possono fungere da neurotrasmettitori anche sostanze a peso molecolare non molto basso, e vengono dimostrati sia a livello del S.N.C. sia a livello del S.N.V. numerosi polipeptidi come la sotanza P, la somatostatina, il peptide vasoattivo intestinale, V.I.P., la neurotossina, la glicentina, la gastrina, le encefaline e tanti altri. Si segnala come particolarmente interessante il fatto che in alcune fibre e in alcuni terminali nervosi coesistano catecolamine e acetilcolina, catecolamine e polipeptidi (Goodman Gilman et al., 1980).

 

I CENTRI DEL SISTEMA NEUROVEGETATIVO

Le vie di conduzione vegetative del nevrasse si suddividono in ascendenti e discendenti (Hillarp, 1959). Le vie vegetative ascendenti conducono nei luoghi di integrazione le sensazioni organiche e dolorifiche originatesi nella periferia vegetativa, iniziando dalle corna posteriori del midollo o nei nuclei terminali dei nervi brachiali e sono identiche alle vie che trasmettono la sensibilità tattile mal definita; esse terminano in parte nel nucleo reticulare del tegumento, nel tetto del mesencefalo e nel talamo ed in parte nell’ipotalamo (Pick, 1970).

La formazione reticolare forma una parte essenziale dell’apparato elementare, ma emette vie di collegamento molto importanti per il talamo e per l’ipotalamo; le fibre dirette all’ipotalamo sembrano avere una parte molto importante nella conduzione della sensibilità dolorifica della sfera vegetativa. Per quanto riguarda le vie vegetative discendenti, occorre sempre tenere presente che i centri vegetativi di maggiore importanza sono posti a livello della formazione reticolare bulbo-ponto-mesencefalica e a livello ipotalamico. Dalla formazione reticolare e dall’ipotalamo discendono verso i centri del parasimpatico craniale e i centri midollari dell’orto- e del parasimpatico fasci di fibre nervose che regolano l’attività dei centri vegetativi sotto il controllo diretto dei quali sono, in definitiva, posti gli effettori.

I centri integrativi vegetativi spinali (Appenzeller, 1990) coordinano processi riflessi relativamente semplici. I centri integrativi vegetativi del bulbo presiedono alla coordinazione di funzioni viscerali relativamente complesse (coordinazione della respirazione e dell’attività cardiaca, regolazione della motilità vasale, controllo dei processi metabolici), ma anche di funzioni viscerali e somatiche (deglutizione, tosse, vomito). I centri integrativi vegetativi mesencefalici sono probabilmente localizzati nella sostanza grigia centrale che circonda l’acquedotto del Silvio; le loro funzioni non sono state ancora completamente chiarite, all’infuori dell’integrazione del riflesso pupillare alla luce. I centri integrativi vegetativi diencefalici sono localizzati nel territorio che forma le pareti laterali ed il pavimento del III ventricolo (zona povera di fibre mieliniche).

L’ipotalamo rappresenta il vero e proprio cervello della vita vegetativa. Qui si provvede alla regolazione delle principali funzioni neurovegetative ed al controllo degli altri centri del S.N.V. In tale area vengono anche secreti ormoni polipeptidici in grado di provvedere al controllo di tutte le principali attività dell’ipofisi, e, conseguentemente, di molte ghiandole endocrine. Le sensazioni viscerali hanno nella corteccia cerebrale soltanto una rappresentazione incompleta (Bacq, 1975). E’ stato dimostrato che la porzione del lobo frontale posta anteriormente al campo corticale motorio presenta una suddivisione funzionale ed è in rapporto, da un lato con manifestazioni emotive e con elevate funzioni psichiche, dall’altro con attività integrative vegetative. I punti eccitabili vegetativi possono venir suddivisi in due gruppi: l’uno è in rapporto con l’effettuarsi di processi motori della sfera somatica, dall’altro provoca di preferenza tipiche reazioni viscerali.

 

FISIOLOGIA DEL SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO

La funzione del sistema nervoso vegetativo è quella di regolare le attività di un gruppo di organi, per lo più viscerali, che possiedono un elevato grado di indipendenza funzionale. Quando i nervi vegetativi sono lesi, questi organi continuano a funzionare, ma le loro attività non possono più essere organizzate efficacemente in modo da mantenere l’omeostasi e rendere l’organismo capace di adattarsi alle variazioni emotive ed allo stress.

L’ipotalamo ed il nucleo del tratto solitario svolgono un’importante funzione nel controllo dell’uscita del sistema nervoso autonomo. L’ipotalamo è il principale centro da cui si originano le vie efferenti del S.N.V. Esso contiene diversi gruppi di neuroni con notevoli differenze anatomiche e funzionali. L’ipotalamo anteriore contiene i nuclei sopraottico e paraventricolare, da cui origina il peduncolo ipotalamo-ipofisario, che veicola il controllo umorale ipotalamico al sistema endocrino. La parte posteriore comprende i corpi mammillari, il nucleo arcuato ed altri raggruppamenti neuronali. La porzione laterale comprende i nuclei tuberali e diversi sistemi di fibre dirette verso il tronco encefalico. Infine, la porzione mediale che contiene i gruppi nucleari ventromediali e dorsomediali. La regione ipotalamica anteriore controlla principalmente le funzioni parasimpatiche e la dispersione del calore nella termoregolazione. I neuroni dei nuclei mediali controllano il bilancio energetico e l’assunzione di cibo e acqua, provocando, se stimolati, una diminuzione dell’appetito ed una riduzione dei depositi di grasso. La regione laterale ha influenza sulle manifestazioni emotive collegate con le reazioni di difesa e di aggressione. Nei nuclei ipotalamici posteriori si trovano i neuroni che attivano le efferenze del simpatico. I neuroni ipotalamici hanno a disposizione due meccanismi per influenzare la secrezione ormonale: il primo, è costituito dai segnali nervosi che si portano alla midollare del surrene attraverso le fibre pregangliari del simpatico, determinando la liberazione di catecolamine nel circolo sistemico; il secondo, è di natura umorale e si manifesta con la produzione diretta di ormoni da parte dei neuroni secretori dell’ipotalamo anteriore, oppure mediante la produzione di fattori di rilascio. E’ noto, oramai da anni, che la secrezione di ormoni antero-ipofisari è controllata da una famiglia di neurormoni, per lo più di natura peptidica, prodotti da neuroni ipotalamici e denominati realising o inhibiting factors in rapporto all’azione, rispettivamente stimolatoria o inibitoria svolta sulla secrezione antero-ipofisaria (Locatelli, 1984).

Fattori che regolano la secrezione dell’ormone neurocorticotropo, ACTH. Il nucleo PVN rappresenta il sito d’azione del feedback negativo, su cui i glicocorticoidi esercitano il loro effetto sulla secrezione del neurormone ipotalamico.

Fattori che regolano la secrezione di prolattina, PRL. E’ ormai accertato che il principale meccanismo di regolazione ipotalamico della secrezione di PRL è costituito dall’inibizione tonica esercitata dalla dopamina (DA) del sistema dopaminergico tuberoinfundibolare (TIDA).

Fattori che regolano la secrezione di tireotropina. Fra le numerose sostanze che regolano la secrezione di TSH l’effetto stimolatorio principale è esercitato dal TRH: prodotto dai neuroni ipotalamici del nucleo arcuato periventricolare e dorsomediale ed immesso nel sistema portale ipofisario, il TRH si lega a specifici recettori presenti sulle cellule ipofisarie TSH-secernenti e attraverso l’attivazione dell’cAMP stimola la secrezione della tropina ipofisaria.

Fattori che regolano la secrezione dell’ormone somatotropo, GH. La secrezione di GH è regolata da una complessa interazione di influenze ormonali di tipo stimolatorio ed inibitorio. Questa regolazione si esercita attraverso l’azione di due neurormoni ipotalamici: il GHRH che influenza con effetto facilitatorio la sintesi e la secrezione dell’ormone somatotropo e la somatostatina che modula in senso inbitorio la secrezione sia basale che quella stimolata della tropina ipofisaria.

Fattori che regolano la secrezione delle gonadotropine. Le gonadotropine FSH e LH sono glicoproteine sintetizzate e secrete da specifiche cellule ipofisarie. La secrezione gonadotropinica è principalmente regolata dall’ipotalamo attraverso l’intervento dello specifico realising hormone, il peptide GnRH o LHRH (Cocchi et al., 1984).

 

STRUTTURE DI CONTROLLO SUPERIORE DEL SISTEMA NEUROVEGETATIVO

(Sistema limbico)

 

Tra le più importanti e recenti scoperte nel campo della neuroanatomia va inclusa quella relativa ai meccanismi cerebrali che regolano le funzioni vegetative. Sappiamo, oggi, che alcuni piccoli nuclei, in apparenza insignificanti, che si trovano nella parete del terzo ventricolo sotto i talami (ipotalamo) e nelle parti più nascoste della corteccia limbica, la cui funzione veniva ritenuta puramente di tipo olfattorio in passato, costituiscono un’area ricca di connessioni afferenti ed efferenti (Bannister & Mathias, 1992).

Nei mammiferi sono presenti una serie di strutture cerebrali diverse, di cui è stata individuata una comune azione di controllo sulle manifestazioni della vita vegetativa. Queste strutture, che comprendono parti filogeneticamente antiche del telencefalo e alcune formazioni sottocorticali adiacenti formano il sistema limbico (Gershon, 1981). Il termine sta ad indicare un’unità funzionale in cui è stato contenuto il substrato neurale dei meccanismi di controllo globale dell’omeostasi. La componente corticale del sistema limbico comprende le aree corticali dell’ippocampo, del giro paraippocampico, del giro del cingolo e gran parte della corteccia rinencefalica. Fanno parte della componente sottocorticale i nuclei dell’amigdala, il nucleo del setto con il nucleo accubens ed il nucleo talamico anteriore. Una caratteristica anatomica delle strutture limbiche è rappresentata dalle numerose connessioni reciproche esistenti con l’ipotalamo. Attraverso le connessioni con le aree neocorticali del lobo temporale, il sistema limbico riceve informazioni provenienti dalla periferia uditiva, visiva e somestesica (Oppenheimer, 1988). Le connessioni con la corteccia prefrontale trasmettono al sistema limbico il risultato dei processi integrativi corticali, che probabilmente rappresentano il più alto livello di organizzazione nella serie di meccanismi che controllano le manifestazioni emotive, gli stati d’animo ed il comportamento. La stimolazione di un lobo frontale può evocare variazioni della temperatura e della sudorazione a livello del braccio e della gamba controlaterali; una massiva lesione di questa sede che causa un’emiplegia, può modificare le funzioni vegetative sia in direzione di un’inibizione che di una facilitazione. E’ da ritenere che il vero ruolo svolto dal sistema limbico nel controllo dell’attività neurovegetativa derivi dalla partecipazione coordinata di tutte le sue componenti. Così la stimolazione elettrica della corteccia dell’ippocampo e del giro del cingolo produce rallentamento, fino all’arresto della respirazione, caduta della pressione arteriosa, rallentamento della motilità e riduzione della secrezione gastrica, dilatazione pupillare e piloerezione. Diversi appaiono gli effetti della stimolazione elettrica dei nuclei dell’amigdala (Moran, 1970), anche se molto variabili a seconda del distretto viscerale considerato. In generale, gli effetti sono simili a quelli ottenibili dalla stimolazione elettrica delle varie zone dell’ippocampo e interessano, sia le reazioni omeostatiche elementari, sia il comportamento globale dell’animale con tutta la costellazione di reazioni vegetative, endocrine e somatiche. L’ablazione bilaterale del nucleo dell’amigdala provoca, nelle scimmie antropomorfe, marcati disturbi del comportamento; gli animali appaiono insicuri e disorientati. La funzione dell’amigdala appare fondamentale nel contesto del sistema limbico per la corretta interazione tra comportamento istintivo e comportamento sociale.

 

RUOLO DEL CERVELLETTO NEL SISTEMA NEUROVEGETATIVO

Una vasta serie di dati sperimentali indica che l’azione del controllo esercitata dal cervelletto sulle funzioni motorie e somatiche interessa, anche, le funzioni viscerali. Molto probabilmente il meccanismo di controllo è analogo e si basa sull’elaborazione dei messaggi che giungono alla corteccia cerebellare dalla periferia viscerale, dall’ipotalamo e dalle aree del sistema limbico attraverso i due principali sistemi afferenti al cervelletto, rappresentati dalle fibre rampicanti e dalle fibre muschiose. Il circuito efferente cerebellare trasmette i segnali di controllo ai nuclei cerebellari ed alla formazione reticolare. La stimolazione della corteccia del verme cerebellare produce modificazioni della pressione arteriosa; si osserva una distribuzione del flusso ematico, che diminuisce nel distretto renale e in quello cutaneo, aumentando nel distretto muscolare; la scarica simpatica nei nervi renali viene inibita dalla stimolazione del verme cerebellare. Si ritiene che il cervelletto controlli specificatamente l’attività della componente simpatica del riflesso che determina dilatazione pupillare; nell’archicerebello risiedono i meccanismi di controllo delle manifestazioni viscerali dipendenti dall’apparato vestibolare (Pick, 1970).

Per le sue caratteristiche funzionali, il sistema nervoso autonomo è in grado di dare rapidamente risposte integrate alle variazioni ambientali.

 

 

1.2

 

EQUILIBRIO MENTE-CORPO

 

La medicina psicosomatica sottolinea l’unità tra mente e corpo e l’interazione tra di essi. In generale, l’assunto è che i fattori psicologici siano importanti nella patogenesi di tutte le malattie. E’ oggetto di discussione se il loro ruolo sia soprattutto all’inizio, nella progressione, nell’aggravamento o nell’esacerbazione della malattia oppure nella predisposizione o nella reazione alla patologia; probabilmente è diverso da caso a caso (Alexander, 1950).

Il termine “psicosomatico” è diventato parte integrante del concetto di medicina comportamentale, che è stata definita nel 1978 dalla National Academy of Sciences come quel “campo interdisciplinare che si occupa dello sviluppo e dell’integrazione delle conoscenze e delle tecniche delle scienze comportamentali e biomediche importanti per la salute e la malattia e dell’applicazione di queste conoscenze e tecniche alla prevenzione, diagnosi e riabilitazione”.

Il rapporto mente-corpo è diventato sempre più, negli ultimi decenni, oggetto di studio da parte delle discipline biologiche e mediche, oltre che punto di interesse per le scienze umane, come la psicologia, la sociologia, l’antropologia. L’esperienza che abbiamo di noi stessi “oscilla sempre in equilibrio tra l’essere e l’avere un corpo, e questo equilibrio deve essere continuamente ristabilito” (Berger & Luckmann, 1966).

L’uomo ha una rappresentazione psichica del proprio corpo. Non è questo un fattore innato, bensì un costrutto mentale graduale e complesso che si sviluppa inizialmente, soprattutto, all’interno della relazione con la madre, continua nell’infanzia e si modifica per tutta la vita. Il rapporto con la madre espleta un ruolo importante per la formazione di una rappresentazione corporea, oltre che per lo sviluppo dell’intera personalità (Wallon, 1954).

L’idea che abbiamo del nostro corpo varia nelle condizioni di salute e di malattia. In riferimento a questo ricordiamo che il corpo svolge anche un’importante funzione comunicativa: ogni nostro gesto, espressione, compresi l’immobilità ed il silenzio hanno un significato in un contesto sociale.

Non è possibile per l’uomo non comunicare e la corporeità, in questo processo, svolge un ruolo fondamentale (Watzlawitck, Beavin, Jackson, 1967). Attraverso un linguaggio non verbale possiamo esprimere emozioni e sentimenti, manifestare l’idea che abbiamo di noi stessi e del nostro corpo e comunicare su aspetti che riguardano la nostra relazione con gli altri (Baldaro, Baldoni, Ravasini, 1994).

I fenomeni che definiamo psichici e corporei sono intrinsecamente legati sin dall’inizio. Nonostante questa evidenza, la medicina si è interessata soprattutto dello studio del corpo, mentre la psicologia ha trascurato gli aspetti biologici, concependo l’uomo solo come attività mentale.

L’origine di questa dicotomia è caratteristica soprattutto della cultura occidentale e questo dualismo si ritrova già nell’opera di Platone e continua nei secoli sino alla filosofia di Cartesio, che distinse la materia, res extensa, dal pensiero, res cogitans.

La separazione tra psichico e corporeo (Giovannini et al., 1982) ha portato, per secoli, la medicina a concepire l’uomo come un insieme di organi e funzioni, perdendone il senso della sua complessa unicità. Spesso, è proprio la condizione di malattia, rivelatrice di una unità psicosomatica che richiede, necessariamente, un approccio multidimensionale e multidisciplinare per la comprensione della patogenesi e la strutturazione di una terapia efficace.

A partire dagli anni Quaranta quasi tutta la neurobiologia si è conformata alla concezione del cervello, visto nel suo rapporto con la mente, come un elaboratore di informazioni (Capra, 1996). A questa interpretazione cibernetica si è accompagnato nel tempo lo sviluppo di un’epistemologia complessa, la quale ha sempre più considerato i sistemi viventi come sistemi cognitivi. La cognizione, in quanto conoscenza, è il processo stesso della vita e rappresenta l’attività direttamente coinvolta nell’autoregolazione e nell’autoperpetuazione dell’autopoiesi (Maturana & Varela, 1985). Il sistema nervoso è parte della nostra unità in quanto esseri biologici. Non esiste effetto o azione del sistema nervoso che non abbia un effetto diretto su una superficie sensoriale, per cui le azioni motorie hanno effetti sensoriali e le azioni sensoriali hanno effetti motori. Questo principio di riafferenza ha validità universale (Varela, 1988). Il sistema vivente, nella sua interazione mente-cervello, possiede una notevole duttilità e flessibilità, che lo pongono nella condizione di interagire con l’ambiente e di rispondere alle perturbazioni, che da esso provengono.

Queste teorie hanno avuto, inevitabilmente, un impatto rivoluzionario sulle neuroscienze, all’interno delle quali la mente ha cominciato ad essere considerata come processo della cognizione, che si identifica con il processo della vita, ed il cervello come la struttura specifica attraverso cui opera questo processo. La relazione tra mente e cervello è stata vista, negli ultimi decenni, all’interno delle neuroscienze come una relazione tra processo e struttura. Il cervello, d’altronde, non è l’unica struttura coinvolta nel processo della cognizione. Il sistema immunitario, ad esempio, negli ultimi anni, viene sempre più identificato con una rete complessa e autonomamente interconnessa quanto il sistema nervoso. Varela e i suoi colleghi (Varela & Coutinho, 1991a) sostengono che è necessario interpretare il sistema immunitario come una rete cognitiva autonoma, responsabile dell’ “identità molecolare” del corpo. Il campo dell’immunologia cognitiva è, ancora, ai primordi e le proprietà di autorganizzazione delle reti immunitarie non sono state affatto ben comprese. Secondo Varela (Varela & Coutinho, 1991b) non sarà possibile elaborare una raffinata concezione psicosomatica della salute, che abbracci, quindi, la mente ed il corpo, finchè non arriveremo a comprendere che il sistema nervoso e quello immunitario sono due sistemi cognitivi interagenti, due “cervelli” che comunicano di continuo.

Un punto di collegamento probabilmente fondamentale in questo quadro è stato fornito, verso la metà degli anni Ottanta, da una studiosa di neuroscienze Candace Pert (Pert et al., 1985) e dai suoi colleghi del National Institute of Mental Health nel Maryland. Questi ricercatori, infatti, hanno identificato un gruppo di molecole, i peptidi, i quali espletano una funzione di messaggeri molecolari che facilitano la comunicazione fra sistema nervoso e sistema immunitario. Queste molecole connettono il sistema nervoso, il sistema immunitario e il sistema endocrino in un’unica rete psicosomatica (Pert, 1993). Secondo la concezione tradizionale, questi tre sistemi sono separati e hanno funzioni diverse. Le recenti ricerche sui peptidi hanno dimostrato, però, in modo molto evidente che tali separazioni concettuali non sono altro che una deformazione storica che non può più essere mantenuta. Questi messaggeri, i peptidi, sono costituiti da brevi catene di aminoacidi che si legano a recettori specifici, presenti abbondantemente su tutte le cellule del corpo. Collegando fra loro le cellule immunitarie, le ghiandole endocrine e le cellule del cervello, i peptidi formano una rete psicosomatica che si estende in tutto l’organismo. I peptidi rappresenterebbero, così, la manifestazione biochimica delle emozioni, hanno un ruolo fondamentale nel coordinare le attività del sistema immunitario; collegherebbero ed integrerebbero le attività mentali, emozionali e biologiche.

Tradizionalmente si riteneva che il trasferimento di tutti gli impulsi nervosi avvenisse attraverso le sinapsi presenti fra neuroni adiacenti. In realtà l’importanza di questo meccanismo è stata mantenuta soprattutto per la contrazione muscolare. Per il resto, diventa sempre più evidente che i peptidi vengono prodotti nei neuroni e spostati lungo gli assoni, alle cui estremità vengono immagazzinati in attesa di segnali appropriati per il loro rilascio. Si tende a ritenere che la maggior parte dei segnali che provengono dal cervello siano trasmessi tramite i peptidi che vengono emessi dai neuroni (Pert et al., 1985).

Legandosi a recettori lontani dai neuroni, in cui sono prodotti, questi peptidi agiscono non solo sul sistema nervoso, ma anche in altre parti del corpo.

Nel sistema immunitario non solo i globuli bianchi possiedono recettori per tutti i peptidi, ma producono essi stessi i peptidi.

Un altro aspetto di grande interesse di questa “rete psicosomatica” da poco individuata è la scoperta che i peptidi rappresentano la manifestazione chimica delle emozioni. Gran parte dei peptidi alterano il comportamento e gli stati dell’umore. I ricercatori avanzano l’ipotesi che l’intero gruppo di sessanta-settanta peptidi possano costituire un linguaggio universale delle emozioni.

Secondo la visione tradizionale le emozioni sono associate a specifiche aree cerebrali ed, in particolare, al sistema limbico. In effetti ciò è corretto: il sistema limbico si è rivelato notevolmente ricco di peptidi. Tuttavia, non è la sola parte in cui si concentrano i recettori per i peptidi, sono molto rappresentati anche nell’intestino.

Gli scienziati (Capra, 1996) hanno osservato che i punti nodali del sistema nervoso centrale, che collegano gli organi di senso al cervello, sono ricchi di recettori di peptidi che filtrano le percezioni sensoriali e stabiliscono un ordine di priorità. Le nostre percezioni e i nostri pensieri sono modulati dalle emozioni. In definitiva, secondo queste recenti acquisizioni, sembrerebbe che la cognizione è, in realtà, un fenomeno che si estende a tutto l’organismo, operando mediante un’intricata rete chimica di peptidi che integrano le nostre attività mentali, emozionali e biologiche, all’interno di quell’unità funzionale complessa ed interattiva rappresentata dalla diade mente-corpo.

In una concezione complessa la medicina psicosomatica si propone, oggi, come un “metaparadigma”, che permette di assumere vari punti di vista nel tentativo di comprendere l’uomo nella sua complessità, attraverso l’adozione e l’integrazione di paradigmi diversi tollerandone differenze e contraddizioni.

Oramai è necessario, nell’ambito della Scienza, adottare un modello scientifico, il quale permetta una visione multidimensionale dell’uomo, che ne rispetti la intrinseca complessità.

 

 

1.3

 

STRESS, CONOSCENZA E MALATTIA

 

Selye (1936) introdusse in medicina il termine stress, in seguito a degli studi condotti su animale, per definire la reazione biologica, caratterizzata dallo stato di attivazione dell’asse neuroendocrino ipofisi-corticosurrene. La reazione era aspecifica e indipendente dalle caratteristiche e dal tipo di stimolo. Egli definì “Sindrome generale di adattamento” la somma di tutte le reazioni sistemiche dell’organismo conseguenti ad una prolungata esposizione a stress sistemico e ne descrisse tre fasi successive. La prima di allarme, in una condizione di stress acuto vengono mobilizzate le difese dell’organismo con iperattivazione dell’asse ipofisi-corticosurrene. La seconda di resistenza, in cui l’organismo è impegnato a fronteggiare lo stressor e continua l’iperproduzione di cortisolo. La terza di esaurimento che subentra, quando l’esposizione allo stressor si protrae in modo abnorme e l’organismo non può mantenere oltre lo stato di resistenza: la corteccia del surrene entra in uno stato di esaurimento funzionale. In questa fase si producono nell’organismo delle patologie difficilmente reversibili e, nei casi estremi, la morte.

Importanti sono stati gli studi condotti da Selye per vari aspetti. In primo luogo, per la prima volta veniva identificata e sistematizzata, in campo biologico, l’esistenza di una reazione biologica unita a stimoli ambientali e veniva stabilita l’esistenza di una relazione tra stimoli esterni minacciosi o pericolosi e reazione interna dell’organismo obiettivabile e misurabile. In secondo luogo, si stabiliva come la reazione di stress fosse di tipo aspecifico, uguale di fronte a stimoli eterogenei. In terzo luogo, veniva stabilito il significato della reazione di stress, quale reazione fondamentale adattiva e difensiva dell’organismo, che, in determinati casi, poteva essere origine di patologie.

Negli anni successivi Selye (1973) arrivò a sottolineare come lo stress non fosse solo una reazione adattiva e difensiva, ma una necessità fondamentale dell’essere biologico per il suo adattamento.

Dalla prima formulazione effettuata da Selye, il concetto di stress ha subito una progressiva evoluzione. Si è, così, arrivati a sviluppare una teoria integrata delle modificazioni psichiche e biologiche della reazione di stress, chiarendone le caratteristiche adattive e applicandola, in modo più specifico, allo studio della patogenesi e delle manifestazioni dello stress nell’uomo.

Negli anni ‘70, infatti, Mason (1975) ha permesso di comprendere, con delle ricerche effettuate su primati, il ruolo decisivo dell’attivazione emozionale, attraverso le strutture del sistema limbico, nel determinare la reazione di stress. Ha sottolineato come la reazione di stress fosse caratterizzata da una risposta multiormonale e come nello stress esistesse una organizzazione generale della reattività neuroendocrina, che coinvolge simultaneamente più assi. Significato sostanziale della risposta multiormonale di stress è quello di permettere un migliore adattamento metabolico dell’organismo in condizioni particolari di richiesta ambientale e di favorire, quindi, la sopravvivenza dell’organismo stesso.

L’attivazione emozionale indotta dallo stimolo si manifesta sia a livello biologico-somatico, con modificazioni neurovegetative ed endocrine, sia a livello psicologico-comportamentale, mediante le sequenze motorie di comportamenti di lotta o di fuga.

Lazarus ha sottolineato l’importanza della valutazione cognitiva degli stimoli, quale fattore determinante per l’innesco della reazione di stress. Studi di psicofisiologia hanno dimostrato come individui diversi mostrino risposte assai differenti in relazione ad uno stesso stimolo, soprattutto per quelli di bassa intensità e di tipo psicosociale. Lo stimolo viene elaborato a livello del sistema nervoso centrale, attraverso processi di tipo cognitivo, e sottoposto ad una valutazione delle sue caratteristiche e del suo significato (Lazarus & Folkman, 1984).

La reazione di stress dell’organismo a stimoli provenienti dall’ambiente e a stimoli intrapsichici è caratterizzata da una risposta multimodale, complessa, articolata su più livelli biologici e psicologici e diversa come configurazione da individuo a individuo.

Oggi, si ritiene che la reazione di stress, non sia solo una reazione con finalità difensiva, innescata da stimoli con significato di minaccia, per la sopravvivenza, ma possa essere attivata da altri stimoli come le funzioni di riproduzione e le interazioni psicosociali di attaccamento e perdita. Si distinguono tre programmi di stress (Pancheri, 1984a) caratterizzati ciascuno da finalità adattive diverse: un programma di stress individuale, strettamente associato alla sopravvivenza dell’individuo; un programma  di stress riproduttivo, correlato alla sopravvivenza della specie; un programma di stress di attaccamento e perdita, implicato nella costituzione, mantenimento e perdita dei legami di coppia e sociali, importanti per la sopravvivenza del gruppo.

In condizioni normali le modificazioni comportamentali e biologiche sono equilibrate. Tuttavia, in alcuni casi esse possono essere sbilanciate; si ritiene che ciò possa costituire un fattore di rischio psicosomatico per lo sviluppo della malattia.

L’esposizione a stressors emozionali produce complesse modificazioni a livello centrale, caratterizzate da alterazioni dei principali sistemi neurotrasmettitoriali e peptidergici, accanto ad un insieme di alterazioni periferiche con modificazioni che interessano il sistema nervoso vegetativo, il sistema endocrino ed il sistema immunitario.

Ricordiamo che le modificazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali e peptidergici cerebrali, come, ad esempio, la noradrenalina centrale ed il sistema CRF-ACTH, sono la base fisiopatologica per l’innesco delle reazioni periferiche.

In riferimento ai rapporti tra stress e sistemi neurotrasmettitoriali, va sottolineato che condizioni di stress ripetuto portano ad una diminuzione del turnover di noradrenalina con un incremento della sua concentrazione soprattutto a livello dell’ippocampo e dell’ipotalamo; l’esposizione protratta ad uno stressor induce un significativo rilascio di serotonina con aumento del turnover, ne consegue una stimolazione degli autorecettori presinaptici e l’instaurazione di uno stato di ipersensibilità recettoriale post-sinaptica; anche il sistema dopaminergico risulta sensibile all’esposizione agli stressors con aumentato rilascio e turnover della dopamina ed accumulo dei metaboliti; infine, la persistenza di stressors incontrollabili è in grado di produrre modificazioni della reattività del complesso recettoriale GABA-benzodiazepine: il sistema GABAergico è stato riconosciuto essere alla base della patogenesi biochimica dell’ansia.

Ai neuropeptidi, negli ultimi anni, viene attribuita sempre maggiore importanza per il ruolo decisivo che espletano a livello centrale sia come modulatori dell’attività neurotrasmettitoriale sia agendo essi stessi con funzione neurotrasmettitoriale. Si va riconoscendo e comprendendo l’importanza della co-localizzazione in vari distretti di monoamine e neuropeptidi: ricordiamo l’associazione di serotonina e sostanza P nelle vie spinali discendenti, implicate nel dolore, o dopamina e colecistochinina, implicate nella regolazione neuroendocrina (Nemeroff, 1991).

I neuropeptidi rappresentano dei “trasduttori” ideali della comunicazione mente-corpo ed è probabile che nei prossimi anni si possa dimostrare che loro alterazioni, spesso innescate da situazioni e stimoli psicosociali stressanti, siano all’inizio di molte patologie psicosomatiche (Pancheri, 1983).

Molti peptidi sono contemporaneamente presenti sia a livello del sistema nervoso centrale che a livello dei distretti periferici dell’organismo.

Sono stati proposti quattro sistemi peptidergici (Pancheri, 1984b), che vengono messi in rapporto con differenti programmi di stress, finalizzati alla organizzazione dei comportamenti e delle modificazioni periferiche ottimali per l’adattamento e la sopravvivenza dell’organismo e della specie.

Esiste un’integrazione funzionale tra i quattro sistemi sia a livello centrale che periferico.

E’ stato descritto un sistema peptidergico dell’azione, rappresentato principalmente da CRF, ACTH, vasopressina, TRH. CRF e ACTH costituiscono i trasduttori centrali che attivano la sequenza ipotalamo-ipofisi-corticosurrene; un sistema peptidergico del piacere-dolore, rappresentato fondamentalmente dai peptidi oppioidi; un sistema peptidergico della riproduzione, costituito dal GnRH ipotalamico, dai peptidi ipofisari LH, FSH, ossitocina e prolattina; ed, infine, un sistema peptidergico di supporto metabolico delle funzioni vitali, rappresentato da un insieme di peptidi -colecistochinina, neurotensina, motilina, neuropeptide Y, renina-angiotensina -, per i quali è stata riconosciuta una doppia rappresentazione centrale e periferica.

I neuropeptidi sono determinanti nella mediazione di comportamenti fondamentali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Alcuni come CRF, vasopressina, ossitocina sono ritenuti gli organizzatori della reazione centrale di stress, a cui fa seguito una serie di fenomeni, che portano all’attivazione dell’asse ipofiso-corticosurrenale, del sistema degli oppioidi endogeni, del sistema neurovegetativo e inibizione del sistema sessuale-riproduttivo.

Il sistema CRF-ACTH costituisce il cuore della reazione di stress. Tale sistema, infatti, è alla base della più classica risposta psico-neuro-endocrina di stress legata all’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene. L’attivazione della sequenza CRF-POMC-ACTH appare come il nucleo della reazione di stress. In risposta a condizioni di minaccia l’organismo appare programmato ad innescare una risposta strettamente integrata, comportamentale e biologica, che solo successivamente si dispiega nelle tipiche modificazioni metaboliche periferiche.

L’attivazione del sistema degli oppiacei endogeni, endorfine ed enkefaline, è alla base del fenomeno dell’analgesia da stress, in cui il soggetto esposto a stress emozionale acuto, in seguito all’attivazione del sistema degli oppiacei endogeni, presenterebbe una ridotta sensibilità al dolore. Cessata la situazione di stress acuto il dolore si presenta all’attenzione del soggetto in tutta la sua intensità.

D’obbligo è l’accenno alle ricerche dell’ultimo decennio che, nell’ambito della psiconeuroimmunologia, hanno dimostrato la comunicazione funzionale che esiste tra sistema nervoso, immunologico ed endocrino.

Per  quanto riguarda   il  SNV  è  ormai  accertato  il  ruolo  nella  regolazione  di  varie   funzioni

 

immunitarie. Agenti colinergici ed adrenergici del SNV, attraverso la mediazione di recettori linfocitari, sono in grado di modulare sia in vivo che in vitro la funzionalità immunitaria (Biondi & Pancheri, 1984). E’ stata accertata l’esistenza di innervazione vegetativa del tessuto linfoide, dove in particolare la noradrenalina modulerebbe la produzione anticorpale (Biondi, 1988). Secondo un’ipotesi, il SNV interverrebbe nella modulazione delle risposte immunitarie con un’azione di potenziamento attraverso la mediazione colinergica, e un’azione di decremento mediante il sistema adrenergico. Esiste, tuttavia, una variabilità a seconda che siano interessati recettori alfa o beta adrenergici (Strom, Lundin, Carpenter, 1977).

Molti studi hanno dimostrato l’elevata sensibilità del sistema nervoso vegetativo agli stimoli emozionali (Drugan, Deutsch et al., 1989). Tra le funzioni neurovegetative interessate dalle modificazioni conseguenti a stress troviamo la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la risposta vascolare periferica, l’attività elettrodermica.

Studi sperimentali di psicofisiologia (Biondi & Pancheri, 1984) hanno confermato come l’elevazione della frequenza cardiaca sia rilevabile anche in situazioni di attivazione cognitiva e di lieve minaccia oggettiva e in assenza di qualsiasi impegno fisico o motorio (test di prestazione, esami...). Tali studi hanno permesso di chiarire come per l’entità della risposta osservata sia determinante il ruolo della valutazione cognitiva individuale. La visione di una stessa immagine a contenuto emozionale può produrre una modificazione della frequenza cardiaca assai differente a seconda del significato che quella immagine riveste per il soggetto. L’esposizione a condizioni di stress facilita l’instabilità elettrica a livello cardiaco. Studi sperimentali su animali hanno documentato come condizioni acute di stress abbassino la soglia per aritmia ed extrasistolia ventricolare, fino a stati di fibrillazione, in determinati casi mortali. In genere, tali quadri sono legati allo stato di iperattivazione adrenergica indotto da condizioni acute di stress. Il rischio di tali reazioni è massimo in condizioni, in cui il soggetto è posto nell’impossibilità di “coping” o di innesco della reazione lotta-fuga. Sono state documentate, in condizioni di stress acuto, anche reazioni acute a predominanza vagale, che possono accompagnarsi clinicamente al quadro della sincope vaso-vagale.

Studi con registrazioni Holter della pressione arteriosa, nell’arco delle 24 ore, hanno rilevato la sensibilità della pressione arteriosa sistolica e diastolica a stimoli e situazioni di stress emozionale. In campo psicosomatico le situazioni che hanno maggiormente mostrato di produrre elevazioni pressorie sono quelle interpersonali, in cui è presente ostilità, frustrazione e, soprattutto, blocco della espressione aperta della risposta aggressiva a livello comportamentale. Meccanismi di difesa dallo stress di tipo rimozione-negazione, che impediscono l’innesco di una reazione comportamentale aperta di lotta-fuga, sono stati considerati come possibili fattori di rischio per lo sviluppo di reazioni ipertensive sotto stress (Biondi & Reda, 1984). I mediatori fisiopatologici implicati sono rappresentati dall’iperattivazione del sistema ortosimpatico, dell’asse ipotalamo medullo-surrenale, con aumentata e protratta increzione di catecolamine, dall’attivazione del sistema renina-angiotensina e, più in generale, dalla risposta di attivazione corticosurrenale.

Anche la vasomotilità periferica rappresenta un sensibile indice di attivazione emozionale. Mediante registrazione fotopletismografica a livello delle falangi distali è possibile documentare anche le minime alterazioni della reattività vasale periferica, caratterizzate da riduzione della pulsatilità, che accompagnano anche minimi stimoli emozionali stressanti.

Infine, le variazioni dell’attività elettrodermica  rappresentano uno dei più sensibili indici di stress emozionali attualmente conosciuti. 

 

 

 

 

 

 

1.4

 

UNA PATOLOGIA CARDIOLOGICA PSICOSOMATICA:

L’IPERTENSIONE ARTERIOSA ESSENZIALE

 

La storia dell’ipertensione arteriosa come entità nosografica appartiene interamente agli ultimi cento anni. E’ solo, infatti, con la costruzione ed il perfezionamento degli apparecchi sfigmomanometrici che la misurazione della pressione potè uscire dal laboratorio di fisiologia e raggiungere la clinica. E’ del 1896 l’apparecchio perfezionato da Riva- Rocci, che, con lievi modificazioni, usiamo ancora oggi nella pratica quotidiana. Risale, però, al 1936 la prima chiara descrizione di una condizione morbosa, i cui segni anatomo-patologici fecero pensare ad un aumento della pressione arteriosa. Bright nel sottolineare la frequenza con cui si riscontrava ipertrofia cardiaca nei pazienti morti con albuminuria, quella malattia cioè oggi chiamata glomerulonefrite, avanzava, tra le altre ipotesi, quella che un’alterazione ematica colpisse la circolazione dei piccoli vasi e dei capillari in modo tale da rendere necessaria una maggiore azione cardiaca per forzare il sangue attraverso i distretti lontani del sistema vascolare. In termini idrodinamici ciò equivale a riconoscere che si era prodotto un aumento della pressione arteriosa.

L’ipertensione arteriosa essenziale è, oggi, vista come un importante fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, per danni renali e cerebrali. L’ipertensione quasi sempre comporta un aumento sia dei valori sistolici sia di quelli diastolici. Il danno vascolare degli organi bersaglio progredisce nei vari soggetti ipertesi con diversa velocità. E’ nel 1911 che viene introdotto il termine di ipertensione essenziale. La storia naturale dell’ipertensione essenziale è estremamente varia: ci sono soggetti nei quali alti valori pressori persistono per anni senza disturbi cardiovascolari; ci sono altri soggetti nei quali l’evoluzione del danno cardiovascolare è, invece, molto più rapida ed assume talvolta un crescendo impressionante. L’aumento della pressione dipende da una sproporzione tra gittata cardiaca e resistenze vascolari periferiche. Nell’ipertensione essenziale la vasocostrizione è intensa nei reni e nella cute, è cospicua nell’area splancnica; ma le resistenze periferiche sono inferiori alla norma nel distretto muscolare, che deve perciò considerarsi relativamente dilatato. Complicanze frequenti dell’ipertensione sono gli accidenti cerebrovascolari da emorragia o occlusione trombotica delle arterie cerebrali. Numerose possono essere le alterazioni dei vasi retinici che sono causate dall’ipertensione. La circolazione renale è un altro degli importanti bersagli dell’ipertensione: il tipo di lesione più comune è l’aterosclerosi. Ci sono due tipi di complicazioni cardiache dell’ipertensione: l’ipertrofia del ventricolo sinistro e l’aterosclerosi delle coronarie. Queste due complicazioni possono condurre allo scompenso ventricolare sinistro e all’infarto del miocardio. L’ipertrofia ventricolare sinistra non consiste in un aumento delle loro dimensioni, accompagnato da un aumento del tessuto collagene di supporto. All’aumento del peso cardiaco non si associa un aumento del letto vascolare coronarico (Teodori, 1986).

Negli ultimi 10 anni numerosissime ricerche hanno tentato di ridurre la sostanziale ignoranza nei riguardi della patogenesi dell’ipertensione arteriosa, cosiddetta essenziale. La mole dei dati emersa è consistente. Tuttavia non si è pervenuti ad una conclusione sufficientemente documentata: si ha anzi l’impressione che le nuove conoscenze siano riuscite ad aumentare le incertezze, poichè hanno consentito soltanto di constatare la sempre maggiore complessità del problema, senza permettere di formulare una teoria adeguatamente corroborata (Braunwald, 1988). L’ipertensione arteriosa essenziale comporta un elevato rischio di morbilità e mortalità cardiovascolari. E’ stato ampiamente documentato che, quanto più elevati risultano i valori della pressione arteriosa ad ogni età e per entrambi i sessi, tanto maggiore è il rischio di complicanze cardiovascolari (Morganti & Zanchetti, 1987). In singoli sottogruppi di soggetti, affetti da ipertensione primitiva, sono state individuate delle deviazioni dalla norma di singoli parametri biologici, i quali potrebbero avere un ruolo patogenetico più o meno diretto. In rapporto al sistema renina-angiotensina è stata sottolineata l’importanza che hanno i molteplici meccanismi attraverso i quali l’angiotensina II è in grado di indurre un aumento della pressione arteriosa.

            Azione di stimolo sulle miocellule vasali, mediata dagli ioni Ca++, e pertanto inibita dai farmaci calcio-antagonisti. L’angiotensina II possiede anche un effetto vasocostrittore indiretto, facilitando la liberazione di mediatori adrenergici a livello della parete vasale.

            Azione sulla corteccia surrenalica. L’angiotensina II agisce sulla zona glomerulare del surrene, aumentando la sintesi di pregnenolone e, quindi, di aldosterone (quest’ultimo determina ritenzione di sodio).

            Azione sulla midollare del surrene. L’angiotensina II stimola le cellule cromaffini a liberare catecolamine.

            Azione sul S.N.C. Pur non superando la barriera ematoencefalica, l’angiotensina II può raggiungere alcune aree encefaliche, inducendo una stimolazione simpatica vascolare.

            Azione sul sistema nervoso periferico. Oltre a facilitare la liberazione di noradrenalina dalle terminazioni adrenergiche della parete vasale, l’angiotensina II facilita la trasmissione nervosa a livello dei gangli simpatici. Nel rene l’azione del peptide sulle cellule mesangiali e sulle arteriole conduce ad una ritenzione di acqua e sodio. Nei soggetti con ipertensione arteriosa essenziale i valori di attività reninica sono alti nel 10% dei casi, normali nel 60% e bassi nel 30%. Nei pazienti con bassa attività reninica può essere presente una aumentata produzione di aldosterone dopo infusione di angiotensina. L’effetto complessivo del sistema reninico sulla pressione arteriosa è, comunque, di tipo lento, mediato soprattutto dall’increzione di aldosterone. Quando siano richiesti, invece, aumenti rapidi della pressione è determinante l’intervento del sistema adrenergico (Beretta Anguissola et al., 1974).

In riferimento al sistema callicreina-bradikinina i ricercatori sottonineano come esso è collegato sia con quello reninico che con le prostaglandine. Le kinine provocano vasodilatazione delle arteriole e vasocostrizione delle vene. Entrambi gli effetti sono mediati dalle prostaglandine, PGE2 e PGF2a. Sempre a livello renale le kinine agiscono sinergicamente con le prostaglandine nel regolare la distribuzione del flusso ematico tra zona corticale e zona midollare. Dato l’effetto prevalentemente dilatatore delle kinine e delle prostaglandine sulle arteriole è stato presunto che in alcuni soggetti la carenza di tali sostanze potrebbe provocare ipertensione.

Un’altra ipotesi (i dati sperimentali sono sempre molto contrastanti) considera il ruolo del calcio intracellulare nella patogenesi dell’ipertensione. In base ad alcune osservazioni è stata formulata l’ipotesi di una “deficienza calcica”, in grado di aumentare la permeabilità della membrana cellulare, il che comporterebbe un aumento del Ca++ intracellulare e, di conseguenza, una maggiore contrattilità delle miocellule vasali. Altri hanno spiegato l’aumento intracellulare del Ca++ con l’esistenza in taluni soggetti di un primitivo difetto renale di escrezione sodica, comportante un incremento del sodio intracellulare e, quindi, del calcio citosolico.

Un recente interesse si è attivato anche per la serotonina, tra le cui varie funzioni troviamo effetti vascolari opposti, a seconda del tipo di recettore che viene stimolato. L’attivazione dei recettori S1 induce vasodilatazione, quella dei recettori S2 vasocostrizione. Il numero di tali recettori è variamente rappresentato nei diversi distretti vascolari. La serotonina oltre ad un effetto vasocostrittore diretto, agisce anche attraverso un potenziamento della noradrenalina e dell’angiotensina II. Nei soggetti ipertesi la serotonina perdurerebbe più a lungo in circolo, a causa del danno dell’endotelio vasale provocato dall’ipertensione: le cellule endoteliali, infatti, contribuiscono ad inattivare la serotonina attraverso la monoaminossidasi presente nel loro interno. L’eccesso di serotonina, secondo questa interpretazione, attiverebbe un circolo vizioso, da un lato attraverso la vasocostrizione per stimolazione dei recettori S2, dall’altra favorendo l’aggregazione piastrinica, da cui si libera nuova serotonina.

La possibilità che esista una sostanziale componente genetica (Beretta Anguissola et al., 1970) nell’ipertensione arteriosa primitiva viene desunta dagli studi sulle differenze razziali, dall’aggregazione familiare dell’ipertensione arteriosa, dagli studi sui gemelli. Gli studi sugli uomini indicano che l’ipertensione ha una genesi multifattoriale e che la quota attribuibile a cause genetiche è compresa tra il 33% e 46%. I monozigoti mostrano indici di correlazione superiori a quelli dei dizigoti e dei figli in generale. Un’aggregazione familiare dei livelli di pressione arteriosa statisticamente significativa è stata riscontrata in soggetti adulti con una parentela di primo grado.

Gli studi condotti su numerosi campioni di popolazioni (Berkson et al., 1976), soprattutto nel mondo occidentale, hanno documentato che i valori di pressione arteriosa crescono con l’età in entrambi i sessi. L’aumento che si accompagna all’età è maggiore nelle femmine rispetto ai maschi.

L’esistenza di un rapporto tra obesità e pressione arteriosa è stata documentata da studi epidemiologici e clinici. Il riscontro di ipertensione è circa tre volte più frequente negli obesi di quanto non lo sia nella popolazione in generale.

Numerosissimi studi hanno indagato l’esistenza di possibili rapporti tra abitudini alimentari e ipertensione. In particol modo è stata trovata una significativa correlazione tra pressione sistolica e diastolica e introduzione di sodio. In questi studi tra popolazioni è stata rilevata una regressione lineare altamente significativa tra pressione arteriosa e consumo di sodio in entrambi i sessi. Una elevata introduzione di sodio ed una insufficiente presenza del potassio nel cibo intervengono sostanzialmente nella patogenesi dell’ipertensione. Naturalmente anche l’obesità e un consumo elevato di alcool correlano positivamente con la pressione arteriosa.

Tra le abitudini di vita la sedentarietà è di frequente riscontro negli ipertesi; invece, l’esercizio fisico intenso ma non a livello agonistico eseguito sistematicamente sembra ridurre i valori pressori dell’iperteso (Menotti, 1977).

Altra componente sottolineata dai ricercatori è il rapporto stress cronico-ipertensione arteriosa primitiva. Sembrerebbe che là dove esiste anche una predisposizione familiare più facilmente eventi stressanti che perdurano nel tempo tendono a sfociare in una slatentizzazione dei valori pressori.

 

 

1.5

 

STRUTTURA DI PERSONALITA’ E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

 

La reazione di stress è utile ad ogni sistema vivente per adattarsi plasticamente, così come è avvenuto per milioni di anni, all’ambiente ed alle perturbazioni che da questo derivano. In determinate condizioni, però, la reazione di stress può perdere il suo significato funzionale di natura adattiva e rappresentare una possibile fonte di rischio per la salute, sia somatica che mentale. La reazione “ottimale” di stress è rappresentata da condizioni di attivazione e disattivazione rapida, con una reazione di stress articolata in risposte biologiche e comportamentali sincrone e integrate tra loro. In questo caso l’attivazione dei sistemi biologici è di intensità variabile, ma raramente raggiunge livelli eccessivi, ed è, comunque, temporalmente limitata, senza condizioni di protrazione abnorme (Levi, 1972). Deviazioni dalle caratteristiche ideali di questa condizione di stress ottimale sono di vario tipo e sono, in genere, chiamate in causa nel determinare un rapporto tra stress e aumentato richio di malattia (Biondi & Pancheri, 1994).

Sono state descritte quattro reazioni patologiche di stress (Pancheri, 1984a):

Stress acuto di elevata intensità. La reazione acuta di stress ha finalità fondamentalmente adattive. E’ possibile che alcune manifestazioni di reazioni di stress acute ed intense siano alla base di reazioni patologiche, soprattutto in soggetti a rischio. Un esempio è rappresentato dalle ulcere gastriche acute da stress, osservate in soggetti con gravi traumi o ustioni estese oppure situazioni in cui la reazione di stress, più legata a fattori psicosociali, agisce come fattore scatenante di episodi di cardiopatia ischemica o incidenti cerebrovascolari. In questi casi è determinante il ruolo dell’iperattivazione catecolaminergica indotta dallo stress.

Stress acuto e/o cronico in condizione di blocco dell’azione. In condizioni ottimali la reazione di stress è caratterizzata da una reazione complementare ed equilibrata di reazioni comportamentali e biologiche che, integrate, sono finalizzate alla neutralizzazione dello stressor. In determinati casi si può verificare una reazione di stress, ma con blocco dell’azione. Gli stimoli in causa sono soprattutto di tipo psicosociale. Queste situazioni comportano una iperattivazione di funzioni fisiologiche, come tensione muscolare, pressione arteriosa, secrezione acida gastrica.

Stress cronico iperprotratto. In questo caso la esposizione allo stressor prosegue nel tempo al di là delle possibilità di reazione dell’organismo. Le capacità e le risorse dell’organismo, dopo la fase di allarme e di resistenza, risultano esaurite, con deplezione lipidica cortico-surrenale, involuzione del sistema timo-linfatico, formazione di ulcere gastrointestinali. Questi meccanismi sono stati soprattutto studiati nell’animale.

Stress acuto in un sistema con inibizione cronica della reazione di stress. Questa condizione è la meno studiata, per il momento. Studi sperimentali effettuati su animali hanno dimostrato che proteggendo a lungo e artificialmente un organismo dalle normali stimolazioni stressanti, la risposta a normali stressors risulta eccessiva, con un’iperattivazione dell’asse ipofisi-surrene ed una disorganizzazione nella strutturazione di un comportamento lotta/fuga adeguato. Nell’uomo condizioni simili possono essere prodotte da particolari caratteristiche di personalità o fattori cognitivi.

Il mediatore tra gli stress psichici e la malattia può essere ormonale, come nella sindrome generale di adattamento di Selye, in cui il mediatore è l’idrocortisone; oppure possono fungere da mediatori i cambiamenti nel funzionamento dell’asse ipofisi anteriore-ipotalamo-surrene, con effetti autonomici, ipertrofia surrenalica e diminuzione di volume del sistema linfoide. Nella comunicazione ormonale gli ormoni vengono rilasciati dall’ipotalamo e trasportati all’ipofisi anteriore, dove gli ormoni trofici esplicano la loro azione direttamente o inducono la secrezione di altre ghiandole endocrine (Alexander, 1950). Un’altra possibile variabile è l’azione dei monociti del sistema immunitario. I monociti interagiscono con i neuropeptidi cerebrali, che fungono da messaggeri tra le cellule cerebrali. Quindi, l’immunità può influenzare il sistema psichico e l’umore (Angell, 1985). Herbert Benson (1993), spiegando gli effetti della terapia di rilassamento su certi disturbi psicosomatici, ha ipotizzato che il rilassamento diminuisca l’attività delle catecolamine adrenergiche cerebrali e che queste sostanze influenzino il sistema limbico -circuito di Papez- che ha un ruolo importante nella patogenesi di malattie psicosomatiche e mentali.

Le modificazioni corporee espresse dall’attivazione dei sistemi biologici di difesa risultano solitamente reversibili e, perciò, non hanno conseguenze gravi sui tessuti di un organismo sano (Trombini & Baldoni, 1999). Come precedentemente, descritto questo è dotato di ampie risorse fisiche e psicologiche, capaci di riportare eventuali alterazioni in uno stato di equilibrio mantenendo l’omeostasi.

Danni organici irreversibili possono insorgere in situazioni che superano le capacità omeostatiche di un organismo sottoposto ad una condizione stressante, che si protrae eccessivamente nel tempo oppure già indebolito da una patologia preesistente.

Intorno alla metà del Novecento, una parte degli studiosi americani si impegnarono nel tentativo di individuare delle caratteristiche psicologiche specifiche, che potessero essere considerate come veri e propri fattori di rischio nei confronti delle malattie. Flanders Dunbar (1947) descrisse per primo i pazienti con coronaropatia come personalità aggressivo-compulsive, con tendenza a lavorare molte ore e ad esercitare l’autorità. Franz Alexander (1950) all’interno di una prospettiva multifattoriale cercò di individuare specifici conflitti a livello della struttura di personalità che, sollecitando cronicamente l’attivazione di risposte fisiologiche, potessero portare allo sviluppo di malattie psicosomatiche.

Queste teorie hanno da sempre suscitato grande interesse, per la complessità di interrelazioni, tra i vari sistemi nell’organismo vivente, sottese, ma non sono state sufficientemente confermate dalla ricerca impostata su criteri metodologici e statistici moderni. L’attenzione, però, rivolta alle caratteristiche individuali ha portato allo sviluppo di strumenti sempre più raffinati, attraverso i quali è possibile svolgere indagini epidemiologiche affidabili su vasti campioni di popolazioni (Trombini & Baldoni, 1999).

Fu nel 1959 che i ricercatori americani Friedman e Rosenman avanzarono l’ipotesi che uno specifico stile di comportamento, che essi chiamarono comportamento di tipo A - Type a coronary-prone behavior -, fosse associato ad un aumento di colesterolo ematico, del tempo di coagulazione e ad un rischio elevato di una malattia coronarica (Friedman & Rosenman, 1959).

L’individuo di tipo A presenta le seguenti caratteristiche:

            * ha sempre fretta, è schiacciato dal tempo e dalle scadenze;

            *è eccessivamente coinvolto nel lavoro;

            *è ambizioso e competitivo;

            *è impaziente, si annoia facilmente;

            *è ostile, cinico, irritabile;

            *è ansioso ed impulsivo;

            *ha uno stile di espressione enfatico, gesticolante, a volte arrogante, con un tono di voce            elevato e vigoroso e un linguaggio rapido e incalzante;

            *ricerca il successo e la valorizzazione sociale;

            *è sempre teso, impegnato senza tregua verso obiettivi non sempre ben definiti.

Questo pattern comportamentale è associato ad alto rischio di disturbi cardiovascolari, rischio dimostrato da molte ricerche retrospettive (Friedman & Rosenman, 1969).

Le personalità di tipo B, invece, sono più rilassate e meno aggressive e tendono a sforzarsi di meno per raggiungere i loro scopi (Rosenman & Friedman, 1974). Questi soggetti sono meno esposti a un rischio cardiovascolare.

Secondo Rosenman e Friedman, il tipo A non è legato  a specifici conflitti inconsci e non corrisponde a una particolare struttura di personalità. Va, invece, interpretato come un particolare comportamento che la persona emette, quando si trova in particolari situazioni stressanti.

Gli stessi ricercatori iniziarono nei primi anni Sessanta uno studio prospettivo divenuto noto come Western Collaborative Group Study (Rosenman, Friedman, Straus, 1964; Rosenman et al., 1975), nel quale furono valutati 3.154 individui sani per un periodo di otto anni e mezzo. In questa popolazione essi dimostrarono che coloro che presentavano un comportamento di tipo A, indipendentemente da altri fattori come diabete o abitudine al fumo, avevano un rischio doppio di sviluppare una malattia coronarica rispetto ai soggetti di tipo B. Le stesse caratteristiche risultarono correlate a un maggior numero di ricadute nei soggetti che avevano già avuto un infarto (Jenkins, Zyzanski e Rosenman, 1976).

L’associazione tra comportamento di tipo A e sviluppo di malattie cardiovascolari, patologie coronariche, infarto, ictus, ipertensione arteriosa, è stata successivamente confermata da altre ricerche condotte negli anni Settanta (Haynes, Feinleb, Levine, 1978).

I dati significativi prodotti dalle ricerche hanno portato nel 1981 il National Heart Lung and Blood Institute a riconoscere ufficialmente il comportamento di tipo A, come un fattore di rischio indipendente nei confronti delle malattie coronariche (Cooper, Detre, Weiss, 1981). E’ stato questo un riconoscimento di notevole importanza, da un punto di vista storico, per la medicina psicosomatica, che venne condiviso anche dalla Organizzazione Mondiale della Sanità.

Risultati difformi sono, invece, emersi da una serie di ricerche effettuate prima e dopo gli anni Ottanta. La diversità dei risultati è stata prevalentemente attribuita ai differenti strumenti utilizzati per diagnosticare il comportamento di tipo A (Dimsdale, 1988).

Allo stato attuale della ricerca il concetto di comportamento di tipo A mantiene ancora una sua utilità, anche se la sua importanza è stata ridimensionata a favore di un suo aspetto specifico.

Quando il comportamento di tipo A fu riconosciuto come fattore di rischio cardiovascolare, l’opinione comune era che si trattasse di una caratteristica stabile, che nessuna terapia psicologica o farmacologica poteva modificare significativamente. Non vi erano, però, studi controllati che avevano valutato questo aspetto.

Oggi, è chiaramente dimostrato che la psicoterapia è in grado di ridurre significativamente il comportamento di tipo A  sia nei soggetti sani che in quelli malati (Littman, 1993). Questo miglioramento è accompagnato da una stabilizzazione e a volte da una regressione del disturbo coronarico. I trattamenti possibili sono molti e vanno dalla terapia individuale e di gruppo fino alle tecniche di rilassamento (Nunes, Frank, Kornfeld, 1987).

Oggi, appare evidente che vi sono altri fattori emotivi e comportamentali che assumono grande importanza per la psicosomatica cardiologia (Frankenhauser, 1980).

La depressione, ad esempio, è presente nel 20/40% dei pazienti affetti da patologie delle coronarie. Essendo poco motivati essi tendono a non collaborare, assumendo in modo irregolare la terapia e perseverando in comportamenti inadeguati come fumo, consumo di alcolici, alimentazione eccessiva, vita sedentaria, che aggravano la loro condizione.

Anche il fumo di sigarette è, oggi, considerato la causa più evitabile della nostra società. Accanto a questo l’inattività fisica rappresenta un fattore di rischio importante. Gli studi dimostrano che 30-60 minuti al giorno di attività fisica leggera o moderata sono il livello ottimale per ridurre, sia nei giovani che negli anziani, la possibilità di una malattia cardiovascolare (Leon et al., 1987).

Infine, sembra molto importante l’influenza dello stress sociale. Fattori come il basso livello economico, la disoccupazione, il lavoro precario, il vivere soli, la mancanza di sostegno familiare e sociale sembrano favorire l’insorgenza di malattie cardiovascolari aumentando il rischio di morte.

La tendenza della ricerca attuale è quello di considerare il comportamento di tipo A all’interno di una visione multifattoriale e complessa. La validità di questa concezione trova un riscontro efficace nel successo ottenuto da programmi terapeutici basati sull’integrazione della terapia farmacologica con interventi psicoeducazionali, tecniche di rilassamento, moderato esercizio fisico (Nunes, Frank, Kornfeld, 1987; Ornish et al., 1990).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO II

 

NEUROSCIENZE E TERAPIA COGNITIVA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.1

 

TEORIA GENERALE DEI SISTEMI E COMPLESSITA’ AUTORGANIZZATA

 

Nei primi tre decenni del nostro secolo si è verificato un mutamento radicale delle concezioni basilari della fisica, condizione che ha avviato un processo di elaborazione di teorie della materia, ancora in corso di svolgimento. Le nuove concezioni sulla fisica hanno determinato un profondo cambiamento della visione del mondo: si è passati dalla visione meccanicistica di Cartesio e Newton ad una visione olistica ed ecologica (Capra, 1996).

All’inizio del nostro secolo non fu affatto facile per i fisici accettare la nuova visione del mondo che con la teoria dei quanti si andava profilando ai loro occhi. L’esplorazione del mondo atomico e subatomico li mise in contatto con una realtà strana ed inaspettata. Nello sforzo di afferrare questa nuova realtà, gli scienziati divennero dolorosamente consapevoli del fatto che i loro concetti basilari, il loro linguaggio e l’intero modo di pensare non risultavano più adatti a descrivere i fenomeni atomici (Mosekilde & Feldberg, 1994). I loro problemi non furono puramente intellettuali, ma una buona parte di quella generazione visse una intensa crisi emotiva di tipo esistenziale, avvertendo come scardinati alcuni principi su cui si basava tutta la visione del mondo. E’ occorso molto tempo per elaborare questa crisi; tuttavia, alla fine, gli scienziati sono stati ricompensati dall’acquisizione di una comprensione più profonda della natura e del suo rapporto con la mente umana (Mosekilde, Aracil, Allen, 1988).

Tali cambiamenti rivoluzionari nell’ambito della fisica sono oggetto di discussione da parte di fisici e filosofi della scienza da oltre cinquantanni. Essi condussero Kuhn (1962) a formulare il concetto di “paradigma “ scientifico, definito come una “costellazione di conclusioni - concetti, valori, tecniche, eccetera - condivise da una comunità scientifica, e usate dalla comunità per definire problemi e soluzioni leciti. Cambiamenti dei paradigmi ricorrono attraverso continue e rivoluzionarie fratture, chiamate “mutamenti di paradigma”.

Nella scienza del ventesimo secolo la prospettiva olistica è divenuta nota come sistemica. Le idee proposte dai biologi organicisti, durante la prima metà del secolo, contribuirono a far nascere il “pensiero sistemico”, un nuovo modo di pensare in termini di connessioni, relazioni, contesto. Secondo la visione sistemica, le proprietà essenziali di un organismo, o sistema vivente, sono proprietà del tutto, che nessuna delle parti possiede. Esse nascono dall’interazione e dalle relazioni fra le parti (Laszlo, 1972).

La comparsa delle concezioni sistemiche portò ad una profonda rivoluzione del pensiero scientifico occidentale. L’opinione secondo cui in ogni sistema complesso il comportamento del tutto possa venire compreso completamente studiando le proprietà delle sue parti è al centro del paradigma cartesiano. In ciò consisteva il celebre metodo analitico di Cartesio, che ha rappresentato uno degli aspetti essenziali del pensiero scientifico moderno.

Nell’approccio analitico o riduzionistico, le parti non possono essere analizzate oltre se non riducendole in parti ancora più piccole. La grande sorpresa della scienza del ventesimo secolo consiste nell’avere scoperto che non è possibile comprendere i sistemi per mezzo dell’analisi. Le proprietà delle parti non sono proprietà intrinseche, ma possono essere comprese solo studiando l’organizzazione del tutto (Atlan, 1985).

Lo shock causato dalla consapevolezza del fatto che i sistemi sono insiemi integrati che non possono essere compresi attraverso l’analisi, fu ancora maggiore in fisica che in biologia.

Da Newton in poi i fisici avevano creduto che tutti i fenomeni della fisica potessero essere ridotti alle proprietà di particelle materiali rigide e solide. Negli anni Venti la teoria dei quanti li costrinse ad ammettere che a livello subatomico gli oggetti materiali solidi della fisica classica si dissolvono in schemi ondulatori di probabilità. Questi schemi, oltre tutto, non rappresentano probabilità di cose, ma piuttosto probabilità di interconnessioni. Le particelle subatomiche non hanno alcun significato come entità isolate, ma si  possono   comprendere  solo  come  correlazioni  fra  processi  distinti  di

osservazione e di misurazione (Haken, 1985).

La fisica quantistica ci ha insegnato che, come affermato da Heisenberg (1984), “il mondo appare così come un complicato tessuto di eventi, in cui rapporti di diversi tipi si alternano, si sovrappongono o si combinano, determinando in tal modo la struttura del tutto”.

Nello spostamento dal pensiero meccanicistico al pensiero sistemico, la relazione fra le parti ed il tutto è stata invertita.

Un principio fondamentale della teoria dei sistemi è che “i sistemi viventi sono totalità integrate, le cui proprietà non possono essere ricondotte a quelle di parti più piccole. Le loro proprietà essenziali o sistemiche sono proprietà del tutto che nessuna delle parti possiede. Esse traggono origine dalle relazioni organizzanti delle parti, cioè da una configurazione di relazioni ordinate che è tipica di quella particolare classe di organismi o sistemi. Le proprietà sistemiche vengono distrutte quando un sistema è sezionato in elementi isolati” (Capra, 1996).

Nella visione sistemica gli oggetti stessi sono reti di relazioni, inserite all’interno di reti più grandi. La percezione del mondo vivente come rete di relazioni ha reso il ragionamento in termini di reti un’altra caratteristica fondamentale del pensiero sistemico.

Una importante conseguenza della visione della realtà come rete inseparabile di relazioni riguarda il concetto tradizionale di obiettività scientifica. Nel paradigma cartesiano si riteneva che le descrizioni scientifiche siano obiettive, ossia dipendenti dall’osservatore e dal processo di conoscenza. Il nuovo paradigma ha implicato che l’epistemologia - la comprensione del processo di conoscenza - debba essere inclusa in modo esplicito nella descrizione dei fenomeni naturali. Ne consegue che la fisica non può essere considerata la scienza fondamentale (Atlan, 1985).

E’ negli anni Cinquanta che questa nuova visione della realtà porta alla famosa distinzione fra teleologia e teleonomia. La teologia indica un pensiero basato su ragionamenti finalistici di tipo classico, in cui si fa appello a cause finali che il metodo scientifico non può accettare. In realtà, sin dal Seicento, la scienza moderna si era imposta di non fare appello all’azione di cause finali del tipo delle entelechie di Aristotele. Questo principio esclude le cause finali che funzionerebbero a posteriori. I grandi successi della meccanica post-newtoniana giustificavano questa presa di posizione metodologica e di fatto, già a partire dal Settecento, eliminarono completamente le cause finali dalla descrizione di fenomeni fisici. Al posto della teleologia Pittendrigh propose il nuovo termine di teleonomia. Anche in questo caso si tratta di finalità, come indica la parola greca telos, ma è una finalità diversa, poichè non comporta nè coscienza nè intenzioni. L’idea sottesa è che non sempre si può fare a meno di ricorrere a modelli di ordine finalistico per descrivere e spiegare il comportamento dei sistemi viventi, ad esempio l’embrione finalizzato alla realizzazione della vita adulta (Atlan, 1983).

Prima degli anni Quaranta, i termini “sistema” e “pensiero sistemico” erano stati usati da parecchi scienziati, ma furono i concetti di sistema aperto e la teoria generale dei sistemi di Bertalanffy che consacrarono il pensiero sistemico, come un importante movimento scientifico. Come altri biologi organicisti egli credeva fermamente che i fenomeni biologici richiedessero nuovi modi di pensare, che trascendessero i metodi tradizionali delle scienze fisiche. Si impegnò a rimpiazzare i fondamenti meccanicistici della scienza con una visione olistica, ponendo l’accento sui processi (von Bertalanffy, 1959) e raggruppando varie teorie - cibernetica, teoria dei sistemi, teoria dell’informazione, teoria dei giochi - all’interno di una disciplina trasversale che ritenne “valida per tutti i sistemi in generale (von Bertalanffy, 1968).

Focalizzò l’attenzione su un dilemma che aveva sconcertato gli scienziati fin dal diciannovesimo secolo, quando nel pensiero scientifico entrò l’idea totalmente nuova di evoluzione. Mentre la meccanica newtoniana era una scienza di forze e traiettorie, il pensiero evolutivo, basato sui concetti di cambiamento, crescita, sviluppo, richiedeva una nuova scienza della complessità. La prima formulazione di questa nuova scienza fu la termodinamica classica con la sua seconda legge, la legge di dissipazione dell’energia.

In accordo con la seconda legge della termodinamica i fenomeni fisici tendono ad andare dall’ordine verso il disordine, per cui ogni sistema fisico isolato o chiuso procederà spontaneamente nella direzione di un disordine sempre crescente. Per esprimere in  una forma  matematica  precisa questa

direzione nell’evoluzione dei sistemi fisici, venne introdotta una nuova quantità detta “entropia”.

Con il concetto di entropia e la formulazione della seconda legge, i termodinamici introdussero nella scienza l’idea di processi irreversibili e di una freccia del tempo (Glansdorff & Prigogine, 1971).

Questa immagine sinistra dell’evoluzione cosmica era in acuto contrasto con il pensiero evolutivo dei biologi dell’Ottocento, i quali osservavano che l’universo vivente evolve dal disordine verso stati di complessità sempre crescente.

Von Bertalanffy (1959) compì un passo cruciale, rendendosi conto del fatto che gli organismi viventi sono sistemi aperti, che non si possono descrivere per mezzo della termodinamica classica. Egli chiamò questi sistemi “aperti”, poichè hanno bisogno di alimentarsi con un flusso continuo di materia ed energia dal loro ambiente per rimanere vivi.

Nei sistemi aperti, come quelli biologici, vi è, invece, una continua emissione ed immissione di energia, materiali, informazioni, da cui deriva la possibilità di cambiare continuamente le regole e gli equilibri. L’aumento di entropia, cioè di disordine, caos, disorganizzazione, è compensato continuamente dall’apporto di forze esterne e da una forza organizzatrice (neghentropia). Caratteristica fondamentale di questi sistemi è il loro continuo rapporto dialettico con i sistemi che li comprendono. Nei sistemi aperti vanno inclusi tutti i sistemi basati su organismi viventi come le piante, gli animali, compreso l’essere umano assieme alle organizzazioni che lo comprendono, come la famiglia, i gruppi e la società (Laszlo, 1985).

I sistemi “chiusi”, come quelli meccanici, hanno una tendenza all’omogeneità, alla perdita delle differenze e al disordine (entropia). Ogni elemento continua a comportarsi rigidamente allo stesso modo e non è possibile lo scambio con l’ambiente esterno.

Bertalanffy teorizzò che è possibile, che nei sistemi aperti l’entropia decresca e che la seconda legge della termodinamica potesse non essere valida. Ma per avere la formulazione della nuova termodinamica dei sistemi aperti si dovette attendere sino agli anni Settanta. Fu il grande risultato ottenuto da Ilya Prigogine (1967) che utilizzò una nuova matematica per riesaminare la seconda legge attraverso un ripensamento radicale delle tradizionali idee scientifiche di ordine e disordine; ciò gli permise di risolvere, inequivocabilmente, la contraddizione fra le due visioni dell’evoluzione del diciannovesimo secolo.

La cibernetica nata nel 1948 con Wiener si è sviluppata contemporaneamente alla teoria dei sistemi, con la quale ha contribuito a teorizzare nuovi modelli interpretativi del funzionamento del cervello e del suo rapporto con la mente.

All’interno di questa scienza si è sviluppato il concetto di feedback. Un sistema interattivo, aperto, come quello umano, presenta un’organizzazione che segue proprie regole e tende a conservare un equilibrio interno. Questa tendenza, chiamata omeostasi, assolve alla funzione di garantire la coesione e la sopravvivenza del sistema e dei suoi componenti resistendo alle tensioni imposte dall’ambiente esterno. Il mantenimento della stabilità è garantito dai meccanismi di feedback, sulla base dei quali un evento è regolato dagli eventi che ha generato in modo retroattivo.

Queste scienze e le teorie elaborate sono confluite e hanno reso possibile, negli ultimi decenni, l’emergere di una concezione dei sistemi viventi basata su una metodologia d’indagine di tipo evoluzionistico, olistico e processualmente orientato. In altri termini, l’aspetto fondamentale di una prospettiva di questo genere consiste nel considerare la capacità di organizzazione autoreferenziale, propria del sistema conoscitivo umano, come vincolo evolutivo di base (Weimer, 1982, 1983; Varela, 1979; Nicolis & Prigogine, 1977).

Nella visione scientifica tradizionale la conoscenza e la realtà sono legate da un rapporto preciso di corrispondenza che di per sè non deve essere giustificato: quello che viene dimostrato è vero e coincide con la realtà. Negli ultimi decenni la visione costruttivista (Bateson, 1979; Maturana & Varela, 1985; von Foerster, 1982; von Glaserfeld, 1985) ha demolito questa certezza, sostenendo che la conoscenza del mondo esterno è attivamente costruita dall’individuo. La differenza fondamentale tra l’interpretazione costruttivista e le altre teorie sta proprio nel rapporto tra conoscenza e realtà (von Glaserfeld, 1988). Quello che riteniamo vero deriva da processi di costruzione, piuttosto che da una rappresentazione attraverso informazioni provenienti dai sensi. Non è possibile riferirsi ad una realtà oggettiva, perchè un osservatore non ha alcuna base per sostenere l’esistenza di oggetti e relazioni indipendenti da quello che egli fa.

Secondo Ceruti  (1985) “La chiusura organizzazionale di un sistema è alla base di ciò che si definisce come il dominio cognitivo del sistema stesso. Il dominio cognitivo di un sistema autonomo, cioè dotato di chiusura organizzazionale, costituisce il dominio delle interazioni in cui il sistema può entrare senza la perdita della sua chiusura, cioè senza la perdita della sua identità, poichè la perdita della chiusura caratterizzerebbe la disintegrazione del sistema in quanto tale. La nozione di chiusura organizzazionale e di dominio cognitivo costituiscono un’importante formalizzazione, nella teoria dei sistemi contemporanea, del carattere irriducibile e costruttivo delle limitazioni e delle precondizioni costitutive l’identità di ogni punto di vista e di ogni sistema, nonchè dell’infinita ricorsività delle sue determinazioni”.

I modelli di autorganizzazione consentono di non vedere più negli organismi viventi una sorta di automi diretti da un programma determinista fornito dall’esterno. L’autorganizzazione è uno stato ottimale che si pone tra i due estremi di un ordine rigido, inamovibile, incapace di modificarsi senza essere distrutto, come quello del cristallo, e di un rinnovamento incessante, privo di stabilità, come quello che rievoca il caos e gli anelli di fumo. Questa condizione consente di reagire alle perturbazioni casuali non previste attraverso mutamenti di organizzazione, che non sono una semplice distruzione dell’organizzazione preesistente, bensì una riorganizzazione che consente l’emergenza di nuove proprietà e la strutturazione di nuovi equilibri.

Ciò che avviene nel sistema è la generazione di stati di coerenza autodeterminantisi che comportano uno stato soddisfacente per tutte le componenti. Va sottolineato come la chiusura operazionale del sistema non corrisponde all’isolamento, bensì la chiusura si riferisce al fatto che il risultato di un’operazione cade ancora entro i confini del sistema stesso, e non al fatto che il sistema non ha interazioni ( Varela, 1985).

Afferma Maturana (1970) “...il sistema nervoso funziona come una rete chiusa di interazioni, in cui ogni cambiamento delle relazioni d’interazione fra alcuni componenti dà sempre come risultato un cambiamento delle relazioni di interazione degli stessi o di altri componenti”.

Da questa scoperta Maturana ha ipotizzato che l’ “organizzazione circolare” del sistema nervoso sia l’organizzazione di base di tutti i sistemi viventi. In altri termini i  sistemi viventi sono organizzati in un processo circolare causale chiuso che permette il cambiamento evolutivo nella misura in cui è mantenuta la circolarità, ma non attraverso la perdita della circolarità stessa.

Poichè qualunque cambiamento nel sistema avviene all’interno di questa circolarità di base, Maturana (1988) sostiene che gli elementi che determinano l’organizzazione circolare devono anche essere prodotti e mantenuti da essa. E conclude che questo schema a rete, in cui ogni componente ha la funzione di aiutare a produrre e a trasformare altri componenti mantenendo nel contempo la circolarità globale della rete, costituisce la vera “organizzazione del vivente”. Ha ipotizzato, anche, che il sistema nervoso non soltanto si autorganizza, ma fa continuamente riferimento a se stesso, così che la percezione non si può considerare una rappresentazione di una realtà esterna, bensì deve essere intesa come la creazione continua di nuove relazioni all’interno della rete neurale. Di conseguenza la percezione e più in generale la cognizione non rappresentano una realtà esterna, ma piuttosto ne specificano una, attraverso il processo di organizzazione circolare del sistema nervoso.

La logica autoreferenziale che presiede all’autorganizzazione di un sistema consente la riformulazione della nozione di autonomia. Un sistema conoscitivo autoreferenziale è autonomo, perchè nel corso del suo divenire temporale subordina ogni possibile trasformazione e cambiamento al mantenimento dell’identità che è stato in grado di costruirsi.

Il mantenimento del senso di individualità ed unicità personale, che ha luogo durante il ciclo vitale, è espressione dell’attività autopoietica individuale (Varela, 1979). Tale attività è caratterizzata da un continuo processo generativo di autorinnovamento, grazie al quale le perturbazioni provenienti dall’interazione con il mondo esterno sono trasformate in livelli sempre più complessi e integrati di identità personale e di consapevolezza di sè. Un sistema conoscitivo complesso, pertanto, è organizzativamente chiuso, in quanto non ammette alternative all’ “ordine esperenziale” su cui si fondano la continuità e la coerenza del suo sè, ed è autonomo, in quanto, al fine di mantenere e rinnovare tale ordine, non ha bisogno di nient’altro se non della continua referenzialità a sè stesso.

L’unica possibiltà di mantenimento dell’adattamento da parte del sistema si identifica nella conservazione della propria coerenza interna a spese dell’ambiente.

In questo contesto culturale e scientifico l’epistemologia è stata in grado di elaborare una vera e propria metodologia “falsificabile” (Weimer, 1982; Popper & Eccles, 1981) per la comprensione della natura della conoscenza umana. All’interno di una prospettiva evolutiva la conoscenza diventa un processo biologico. La conoscenza appare come un processo in continuo dispiegamento e consiste nella progressiva strutturazione di schemi rappresentativi di Sè e del mondo.

Questi diventano progressivamente più complessi e sempre più in grado di rendere decodificabile la prevedibilità e il fluire multiforme delle esperienze, essendo la decodificabilità e la prevedibilità gli strumenti indispensabili per un’efficace sopravvivenza (Weimer, 1975; Popper, 1975; Lorenz, 1973).

Complessità ed autorganizzazione appaiono fortemente interconnesse. In una prospettiva motorio-evolutiva la conoscenza e i comportamenti simil-mentali appaiono essere una qualità immanente a ogni sistema vivente. Pribram ha affermato (1980) “La mente è una proprietà emergente dalla capacità del cervello di elaborare informazioni”. Se la mente, come conoscenza autorganizzata, appare distribuita lungo un continuum, che va dai primi e rudimentali comportamenti esplorativi all’autocoscienza umana, l’evoluzione viene, in quest’ottica, considerata come una strategia di base che mira al conseguimento della stabilità in un ambiente multiforme e mutevole, mediante la strutturazione di livelli sempre più complessi e integrati di funzionamento autonomo ed autoreferenziale.

L’organizzazione dei sistemi viventi consiste di un insieme di sottosistemi disposti a più livelli, differenziati sulla base della loro struttura e funzione, e gerarchicamente ordinati. La preminenza esclusiva acquisita dalle organizzazioni gerarchiche, nel corso dell’evoluzione dei sistemi viventi, può essere facilmente spiegata considerando che esse sono in grado di fornire al sistema una maggiore plasticità, rendendo efficace l’adattamento all’ambiente (Guidano, 1988).

L’unità autorganizzata viene, anche, vista come un sistema in continuo divenire, il cui sviluppo durante il ciclo di vita è regolato dal cosiddetto “principio di progressione ortogenetica”. Tale principio comporta che il sistema si sposta verso livelli sempre più integrati di ordine strutturale e complessità interna (Werner, 1957).

Il principio che sottende questo equilibrio dinamico è quello dell’ “ordine attraverso le fluttuazioni”, per cui ogni volta che una fluttuazione si amplifica a livello tale da superare la soglia di stabilità in corso, lo squilibrio spinge il sistema verso la ristrutturazione dei suoi processi di ordinamento autoreferenziale (Nicolis & Prigogine, 1977; Atlan, 1981).

Altra componente importante della modalità umana di strutturare l’esperienza è la percezione dell’irreversibile direzionalità del tempo. La polarizzazione dell’universo, l’esistenza di una freccia del tempo di fondo, è un elemento coesivo, poichè tutti apparteniamo all’universo in evoluzione, all’universo caratterizzato da una rottura di simmetria.

Da ciò emerge l’autonomia del tempo, perchè nel corso dell’evoluzione cosmica, con le tappe del passaggio dalle strutture dissipative alla vita, e, quindi, all’evoluzione biologica, si assiste, secondo Prigogine, alla creazione di un tempo sempre più autonomo in seguito all’iscrizione dell’irreversibilità nella materia (come nel caso del DNA). La progressione ortogenetica del sistema autorganizzantesi si dispiega all’interno di una direzione temporale irreversibile (Prigogine, 1973, 1985).

Lungo tutto il ciclo di vita la direzionalità del tempo è proiettata all’interno dei processi cognitivi e porta avanti una trasformazione strutturale del tempo stesso, mediante la quale ogni sistema conoscitivo umano ha il suo tempo soggettivo interno, che influisce parallelamente e si intreccia con l’ordine temporale oggettivo.

 

 

2.2

 

LA PROSPETTIVA MOTORIO-EVOLUTIVA DELLA CONOSCENZA UMANA

 

Nell’ambito dell’intera storia della nostra tradizione scientifica, l’evoluzione delle teorie della complessità si radica in modo preciso nei problemi, che, dagli anni Quaranta, hanno definito progressivamente gli universi di discorso delle scienze cognitive, delle scienze evolutive, della scienza della phisis, del pensiero sistemico, dell’epistemologia sperimentale. Questi problemi, come abbiamo visto, furono di differenti estrazioni disciplinari che ebbero ad incontrarsi anche in seguito ai tragici eventi che sconvolsero il mondo (Bocchi & Ceruti, 1985). La sfida della complessità si pone, oggi, all’intreccio di tutta una serie di problemi tecnici, scientifici, epistemologici, filosofici, antropologici. Pone in primo piano la natura irriducibilmente multidimensionale di ogni conoscenza.

All’interno della Scienza Cognitiva contemporanea, ancorata agli assunti di base della complessità, gli esseri viventi vengono studiati come unità autonome, cioé come sistemi capaci di stabilire le proprie leggi e la propria specificità, differenziandosi dall'ambiente circostante, mediante la loro stessa dinamica.

L'essere e l'agire di un'unità autopoietica sono inseparabili e ciò costituisce la sua modalità peculiare di organizzazione (Maturana & Varela, 1987).

Secondo tale prospettiva evolutiva, la comparsa di unità autopoietiche sulla superficie della Terra costituisce una pietra miliare nella storia del nostro pianeta.

Scrivono Maturana e Varela (Maturana & Varela, 1987) "Dobbiamo ammettere che nell'ambito molecolare dell'origine degli esseri viventi terrestri, solo alcune specie molecolari devono avere posseduto le caratteristiche che permisero di costituire unità autopoietiche, iniziando il processo strutturale a cui noi stessi apparteniamo. Per esempio, fu necessario l'intervento di molecole capaci di formare membrane sufficientemente stabili e plastiche da costituire barriere efficaci, ma nello stesso tempo dotate di proprietà modificabili per permettere la diffusione di molecole e di ioni in tempi lunghi rispetto alle velocità molecolari..... Le circostanze che resero possibile la formazione di unità autopoietiche si verificarono, nella storia della Terra, solo quando si realizzarono le condizioni per la formazione di molecole organiche come le proteine, che hanno flessibilità e possibilità di complicazione praticamente illimitate. Possiamo, infatti, supporre che, quando nella storia della Terra si realizzarono tutte le condizioni sufficienti, inevitabilmente avvenne la formazione dei sistemi autopoietici. Tale momento può essere indicato come l'origine della vita".

Il sistema nervoso, rispettando questo vincolo evolutivo "complesso" di origine, ci si presenta come un sistema in continuo cambiamento strutturale. E', cioé, dotato di plasticità. Tale requisito rende possibile un'interazione continua con l'ambiente, nel corso della quale mantiene la propria organizzazione, governando dal suo interno, come risultato delle interazioni innescate, il processo di cambiamento adattivo che lo interessa.

Secondo un’interpretazione costruttivista la “selezione naturale”, nella filogenesi come nella storia della conoscenza, non seleziona nel senso positivo gli elementi più resistenti, più capaci, migliori, ma opera in senso negativo, lasciando semplicemente perire tutto ciò che non resiste alla prova (von Glaserfeld, 1988). Gli organismi e comportamenti che troviamo in vita in qualsiasi momento della storia dell’evoluzione, si sono sviluppati in modo cumulativo da variazioni casuali, e l’influsso dell’ambiente in tutte le circostanze si limitava a eliminare le varianti non vitali. L’ambiente, quindi, può essere reso responsabile tutt’al più dell’estinzione, ma non della sopravvivenza.

“Nell’ambito di questa storia naturale delle possibilità, nuovi domini di possibilità si producono in dipendenza delle grandi svolte dei processi evolutivi, da veri e propri effetti soglia, punti di biforcazione, amplificazioni di fluttuazioni. E’ proprio all’interno di questa storia naturale che si producono processi di fissazione delle possibilità, che diventano vincoli in grado di eliminare alcune alternative possibili e di produrne di nuove”(Ceruti, 1985).

Negli ultimi tre milioni di anni l'espansione evolutiva del cervello è stata notevole. Un’ipotesi, generalmente accettata, è che l'incremento delle dimensioni del cervello sia il risultato di modificazioni genetiche "saltazionali", verificatesi nel corso di un processo evolutivo di equilibrio punteggiato. Il progressivo incremento delle potenzialità del cervello, rispetto all'unità molecolare di origine, potrebbe essere stato il processo critico della selezione naturale (Eccles, 1990).

Sorprendenti sono le scoperte che ci fanno comprendere come, già all'inizio dell'era Paleolitica, l'Homo sapiens sapiens, circa 30.000 anni fa, aveva sviluppato, anche se rudimentalmente, un sistema cognitivo di osservazione, di astrazione e di annotazione. Infatti, analizzando i dettagli di un'incisione su un pezzo di osso scoperto a Blanchard in Francia, è stato notato come un antenato aveva inscritto con un simbolismo complesso, in maniera sequenziale, le fasi della Luna per due mesi ed un quarto. Questo evento è stato considerato come una conquista pioneristica di un primo scienziato di cosmologia, il quale ha, così, prodotto un tracciato grafico delle fasi e della regolarità del ciclo lunare (Eccles, 1990).

L'Homo sapiens sapiens, già, fruiva della conquista evolutiva, che era stata maturata nel periodo precedente.

Infatti, nella situazione di simmetria funzionale degli ominidi, la "strategia" di adattamento del sistema era caratterizzata dalla duplicazione delle funzioni su entrambi gli emisferi. Un cervello simmetrico era, certamente, più sicuro, ma inevitabilmente ridontante (Guidano, 1988).

E' molto probabile che, durante l'evoluzione degli ominidi, sia intervenuta una eccessiva richiesta in termini di organizzazione neuronale per far fronte alle nuove esigenze evolutive: questo fenomeno ha interessato soprattutto i processi superiori del linguaggio. All'inizio sarebbe comparsa, in modo differenziale nei due emisferi, una sorta di "propensione" per certe funzioni (Eccles, 1990).

La specializzazione emisferica che, così, si era strutturata, rappresenta una caratteristica peculiare della specie umana. Il cervello bilateralmente simmetrico dei primati ha costituito un dispositivo di sicurezza ai fini dell'adattamento. In effetti, una struttura simmetrica è capace di mantenere la sua funzione, anche quando una delle due parti viene danneggiata. Ma la rottura della simmetria che si è manifestata nell'evoluzione umana rappresenta una risposta specifica alla pressione imposta dall'emergenza del linguaggio.

Secondo Popper (Popper, 1981), la specializzazione emisferica ha rappresentato una sorta di "scelta di specie", grazie alla quale il controllo evolutivo cosciente sull'esplorazione ambientale viene assegnato alle funzioni logico-concettuali appena emerse.

Alcune caratteristiche, come le dimensioni, il peso e le circonvoluzioni della corteccia cerebrale non rivelano una asimmetria significativa; l'asimmetria è, invece, stupefacente alla luce delle proprietà funzionali dei due emisferi cerebrali.

L'asimmetria più evidente riguarda le aree del linguaggio. Regioni estese dei lobi parietale e temporale dell'emisfero sinistro sono specializzate per il linguaggio (area di Wernicke). Le aree corrispondenti dell'emisfero destro hanno una piccolissima correlazione funzionale con il linguaggio. Allo stesso modo, l'area dell'emisfero destro corrispondente all'area di Broca non sembra essere utilizzata per le funzioni linguistiche.

Quando avviene una lesione estesa dell'emisfero destro, il soggetto presenta difficoltà di orientamento nello spazio circostante. Vengono compromessi compiti che coinvolgono la coordinazione di punti di riferimento somestesici e visivi, funzioni svolte principalmente dall'emisfero non dominante. Così, il lobo parietale destro è coinvolto, soprattutto, nell'analisi di dati spaziali e in una forma non verbalizzata delle relazioni tra il corpo e lo spazio. Le lesioni danno origine alla perdita di attività che dipendono da movimenti finemente organizzati (aprassia).

Lesioni del lobo parietale sinistro comportano disordini del linguaggio come afasia ed alessia. Nel lobo parietale sinistro si verifica l'integrazione delle informazioni sensoriali con il linguaggio. Infatti, le lesioni provocano disordini della mimica, della scrittura, della capacità di eseguire operazioni aritmetiche e della conoscenza verbale di entrambi i lati del corpo. Di conseguenza, si verificano alterazioni dell'attività motoria, dell'abilità costruttiva e della capacità di eseguire i calcoli.

Il lobo temporale destro è la regione principalmente coinvolta nell'apprezzamento della musica; infatti, interviene in maniera determinante nel riconoscimento musicale, nella percezione dello spazio   e  nella memoria. L'emisfero  sinistro,  in questo caso, è coinvolto  in uno  stadio dell'analisi

 

dell'informazione acustica, che precede il riconoscimento somatico.

Molti dati avvalorano la tesi che l'emisfero sinistro è dominante per i processi analitici, quello destro per i processi olistici, di sintesi.

In generale, l'emisfero dominante è specializzato nei fini dettagli immaginativi di tutte le descrizioni e reazioni; è, cioé, analitico e sequenziale. Naturalmente la sua dominanza deriva dalle abilità verbali e ideative e dal suo stretto rapporto con l'autocoscienza. L'emisfero minore è preminente in molte importanti attività, quali l'abilità spaziale ed una spiccata sensibilità per le forme e le geometrie.

Una scoperta molto significativa a proposito dell'emisfero destro è la grossa differenza tra le capacità di comprensione e di espressione. Da questo punto di vista, la coscienza dell'emisfero destro è mascherata dalla mancanza del linguaggio espressivo (Eccles, 1990).

La strategia delle asimmetrie funzionali ha praticamente raddoppiato le capacità del cervello (Levy, 1977).

L'emisfero destro sintetizza a livello spaziale, quello sinistro analizza a livello temporale.

La "vecchia" corteccia ha mantenuto simmetriche le funzioni sensoriali e motorie. Infatti, il periodo di mielinizzazione della neocorteccia è indicativo della sua età evolutiva. Gran parte delle aree prefrontali e l'area infero-temporale hanno subito un processo di mielinizzazione tardivo. Queste aree sono le ultime che si sono sviluppate durante l'evoluzione e sono state definite neo-neocorteccia; quest'ultima rappresenta gran parte della corteccia che si individua nell'uomo. All'estremo opposto si pone la relativa stabilità nelle dimensioni delle aree motorie durante l'evoluzione degli ominidi (Eccles, 1990).

E' stato proposto che le aree neo-neocorticali  si siano evolute parallelamente alle funzioni gnostiche, coscienza, pensiero, memoria, creatività, sentimento, che sono appunto peculiari dell'evoluzione degli ominidi (Sperry, 1982).

Come stadio finale del processo di specializzazione e differenziazione, i due emisferi hanno raggiunto il livello di organizzazione funzionale tipico di un insieme integrato mediante la strutturazione di una relazione dinamica e complementare.

Con la specializzazione emisferica gli esseri umani hanno acquisito la capacità di andare oltre il campo percettivo; ciò, congiunto all'interiorizzazione del linguaggio e, quindi, allo sviluppo di schemi di rappresentazione interna più articolati e precisi, ha reso possibile il raggiungimento del decentramento dall'immediatezza dell'esperienza. E' probabile che la complementarietà tra un emisfero sinistro, specializzato in compiti logico-matematici, ed un emisfero destro, specializzato in compiti analogico-spaziali, abbia aumentato le possibilità di esplorazione e controllo sull'ambiente insieme ad una comprensione più articolata ed integrata di sè stessi e del mondo esterno, con la realizzazione di un adattamento sempre più adeguato ed efficace.

La specializzazione per il linguaggio ha innescato nel corso dell'evoluzione un processo di riorganizzazione del sistema autopoietico, in seguito al quale l'intera organizzazione funzionale emisferica ha oscillato continuamente fra le due dimensioni conoscitive di base.

In tal senso, in base alle "teorie motorie" della mente, l'ordine e la regolarità, che caratterizzano la nostra esperienza fenomenica, sono il prodotto attivo delle capacità autoreferenziali della mente umana, piuttosto che il riflesso di un ordine insito nella realtà esterna (Guidano, 1988).

Secondo Pribram il cervello, organizzando tramite l'attività ordinatrice degli organi sensoriali l'input proveniente dal mondo fisico, costruisce le proprietà mentali.

Infatti, sulla base di una prospettiva motorio-evolutiva, la mente appare come un sistema attivo e costruttivo, capace di produrre non solo gli output, ma, anche, gli input che riceve.

Il sistema nervoso deve continuamente confrontare il flusso dei dati in entrata con i modelli rappresentativi interni.

La continua costruzione attiva di modelli rappresentativi di realtà è il processo autoreferenziale del nostro sistema nervoso (Guidano, 1988). L'emergere del pensiero logico-formale e della coscienza ha intensificato la complessità e la flessibilità dell'attività neurale di decodifica, permettendo al sistema di agire più adeguatamente sulla sua percezione immediata di realtà.

Non va dimenticato che la conoscenza preverbale e tacita, nel corso dell'evoluzione, è comparsa molto prima ed è più radicata nella struttura filogenetica. Questa modalità di conoscenza fornisce una cornice percettiva di tipo olistico, mediante la quale diventa possibile focalizzare il controllo cosciente sui processi corticali superiori, la conoscenza esplicita, estremamente specializzati, ma proprio per questo inevitabilmente parziali.

Pribram (Pribram, 1971) ha ricondotto la conoscenza tacita ed esplicita, rispettivamente a due diversi tipi di codici neurali utilizzati nell'elaborazione dell'informazione.

Il primo tipo è legato a continue e ritmiche modificazioni graduate di potenziali lenti, dovute all'attività delle microstrutture giunzionali di aggregati neuronali, l'altro è, invece, connesso alle scariche unitarie, intermittenti di potenziali elettrici discreti del tipo "tutto o nulla", dovute all'attività intraneuronale.

Il primo codice consiste in una codificazione spaziale e "globale" dell'attività neurale spontanea. Il secondo rappresenta una codificazione temporale di una serie di impulsi neuronali discreti. Secondo Pribram (Pribram, 1971) solo un modello olografico, rappresentato dagli schemi d'interferenza d'onda derivanti dall'attività dei potenziali lenti graduati, è in grado di spiegare l'enorme quantità di dati di natura olistica solitamente contenuti nel livello tacito di elaborazione delle informazioni. La distribuzione diffusa dei dati rende conto, anche, del controllo decentralizzato, a cui sono sottoposti, e della flessibilità e duttilità dell'attività mentale.

Nell'evoluzione dei sistemi complessi autorganizzati, quello olografico è diventato il metodo di immagazzinamento e di richiamo delle informazioni, più sofisticato, economico, e adatto alla sopravvivenza.

La modulazione degli schemi d'interferenza d'onda darebbe luogo a quell'ordinamento sensoriale tacito del flusso esperenziale, che in ognuno di noi va al di là delle capacità d'attenzione individuale (Guidano, 1988).

Tra i due livelli di conoscenza tacita ed esplicita si stabilisce, progressivamente, durante l'ontogenesi, similmente a quanto è accaduto nel corso della filogenesi, una relazione dinamica e complementare tra due dimensioni indipendenti ed irriducibili tra loro. La tensione continua nell'evoluzione del ciclo di vita tra questi due livelli, rende possibile comprendere il motivo per cui il dispiegamento dell'esistenza individuale è un processo generativo "aperto", all'interno del quale è solo possibile un'integrazione dialettica per il raggiungimento di un "equilibrio" dinamico, suscettibile sempre di ulteriori progressioni.

Il mantenimento della coerenza interna rappresenta il principio regolatore essenziale che conferisce unità funzionale e continuità temporale all'intero processo (Guidano, 1988).

Scrive Maturana (Maturana, 1988) "Il nostro essere umani ci si rivela hic et nunc nella prassi del vivere". In nessun momento il nostro sentirci vivere può prescindere da questa dimensione ontologica primaria. La conoscenza di sè e del mondo è il prodotto emergente di un processo continuo di regolazione reciproca tra l'esperire e lo spiegare. Quello che si realizza è un processo circolare, all'interno del quale l'esperienza immediata viene riordinata e strutturata attraverso abilità logico-linguistiche.

Il fluire dell'esperienza immediata appare come un vincolo necessario di ogni spiegazione e lo spiegare assume un ruolo fondamentale nell'attribuire significato all'esperienza del vivere.

L'evoluzione temporale del sistema conoscitivo umano è caratterizzata da una progressione ortogenetica, come conseguenza della continua assimilazione dell'esperienza. Nel tempo il sistema va incontro ad un incremento progressivo della sua complessità interna, che si manifesta con l'emergere discontinuo di livelli più integrati di conoscenza di sè e del mondo.

Nella progressione ortogenetica del ciclo di vita, il raggiungimento dell' "ordine attraverso le fluttuazioni" (Prigogine, 1971) rende possibile mantenere la coerenza interna solo mediante spostamenti continui e progressivi del punto di equilibrio, che consentono di assimilare le perturbazioni che, inevitabilmente, insorgono come risultato dell'esperienza.

L'aumento della complessità interna è un processo discontinuo con ampi margini di imprevedibilità. Incrementi "critici" della complessità interna fanno sì che il sistema possa mantenere la sua coerenza solo a patto di procedere ad una riorganizzazione, più o meno profonda, del suo ordine esperenziale.

Periodi di stabilità, in cui il sistema sembra preoccuparsi solo del mantenimento del suo status quo, divenendo, così, prevedibile, sono punteggiati da periodi di instabilità intensissimi, in cui a minime modificazioni ambientali corrispondono profonde crisi esistenziali con riorganizzazione dell'esperienza  personale (Mahoney, 1991).

Questa bipolarità del Sè, tra l'Io che esperisce ed il Me che valuta, tra Esperire e Spiegare, appare come un vincolo ontologico centrale ed irriducibile nella nostra prassi del vivere come esseri umani (Guidano, 1992).

 

 

2.3

 

COSTRUZIONE DEL SE’ COME PROCESSO INTERATTIVO E DIALETTICO ED

EQUILIBRIO PSICOSOMATICO

 

Mentre continua ad interagire con il suo ambiente, un organismo vivente passa attraverso una serie di cambiamenti strutturali, e nel tempo organizza un proprio percorso individuale di evoluzione strutturale. In ogni punto di questo percorso la struttura dell’organismo è una registrazione dei cambiamenti strutturali precedenti, e, quindi, delle interazioni precedenti. La struttura vivente è sempre una registrazione dello sviluppo precedente, e l’ontogenesi è la storia dei cambiamenti strutturali dell’organismo.

L’idoneità alla sopravvivenza presuppone determinati requisiti, fra i quali anche la capacità di continuo adattamento, dal momento che sia l’ambiente che gli esseri viventi sono soggetti a cambiare (Eibl-Eibesfeldt, 1993). Nei loro adattamenti, gli organismi rispecchiano quelle proprietà dell’ambiente circostante che sono rilevanti per la loro fitness, ma rispecchiano anche proprietà del loro ambiente interno, inteso come interrelazione di organi. Un adattamento nasce dal confronto del sistema adattato con la forma di adattamento. L’adattamento è avvenuto nel corso dell’evoluzione dell’uomo, in quanto varianti prodotte per mutazione vengono selezionate sulla base della loro idoneità. Le informazioni per costruire dei fenotipi di successo vengono conservate, e, così, l’informazione viene memorizzata nel genotipo e successivamente trasferita in un contesto di ordine superiore.

Accanto all’adattamento filogenetico vi è poi un adattamento basato sull’apprendimento individuale e nell’uomo, anche, sull’apprendimento di conoscenze trasmesse per tradizione. In questo caso ha luogo un trasferimento di informazione. L’evoluzione culturale è per molti aspetti una fenocopia dell’evoluzione filogenetica, poichè anche in questo caso è, in ultima analisi, la selezione che decide l’evoluzione di un carattere. Anche una determinata usanza deve conservarsi, ma essa può venire appresa per prove ed errori, senza che necessariamente l’organismo stesso perisca, quando gli errori vengono eliminati.

Per gran parte degli organismi viventi l’ontogenesi non è un percorso lineare, ma un ciclo e la riproduzione è una tappa essenziale di questo ciclo.

Miliardi di anni fa, la combinazione delle capacità dei sistemi viventi di riprodursi e di creare novità condusse spontaneamente all’evoluzione biologica: un dispiegarsi continuo e creativo della vita che da allora in poi è proseguito in un processo ininterrotto, senza mai spezzare lo schema di base delle sue reti autopoietiche.

La carratteristica distintiva di un sistema autonomo e autorganizzato è l’organizzazione attiva della propria identità attraverso il progressivo sviluppo di un processo di differenziazione tra Sè e non-Sè.

Ogni conoscenza di sè ha il suo fondamento nella presenza e nell’interazione con gli altri sin dalle prime fasi di vita. Queste teorie, looking-glass self (Mead, 1934; Linden, 1974), tendono ad essere confermate dai dati sempre più consistenti ricavati dalle ricerche sui primati.

Il fatto che lo strutturasi di una reciproca regolazione dialettica tra sè e gli altri sia il requisito essenziale anche per la costruzione di schemi prototipici di riconoscimento di sè mette in rilievo come tale interdipendenza non sia soltanto un particolare meccanismo cognitivo di natura autoreferenziale, ma corrisponda piuttosto a una vera e propria demarcazione ontologica, che crea l’irriducibile dualità tipica della nostra esperienza sensoriale: la distinzione tra percezione di sè e percezione del mondo.

L’elaborazione della conoscenza appare come un processo unitario che si dispiega grazie alla regolazione reciproca tra due polarità antagoniste, il Sè e il mondo.

Nella specie umana processi di attaccamento e capacità di autorganizzazione sono strettamente embricati. L’emergere nella nostra specie di una dipendenza così prolungata di relazioni emotivo-affettive con altri probabilmente è strettamente legata all’aumento della complessità della mente umana.

Già i lattanti ( Harlow, 1958) sono provvisti di una serie di programmi comportamentali che possono essere considerati adattamenti filogenetici. A partire dalla nascita il comportamento va incontro a continue modifiche e questo sviluppo, in quanto processo di differenziamento del fenotipo, si attua secondo uno schema ben determinato. Un movimento originariamente riflesso ed automatico diventa disponibile da un certo momento in poi strumentalmente come motorica volontaria. Si ipotizza, in questo caso, l’intervento di una “corticalizzazione”, nel senso che in seguito ad un processo di maturazione entrerebbe in gioco la corteccia cerebrale. Il fatto che durante questa trasformazione, che rappresenta una vera e propria ristrutturazione, scompaiono certi schemi comportamentali, costituisce certamente un fenomeno collaterale del cambiamento di organizzazione (Eibl-Eibesfeldt, 1993).

L’attaccamento espleta funzioni diverse a seconda degli stadi del ciclo di vita: nelle fasi maturative esso esercita un’influenza diretta sullo sviluppo dell’identità; per l’intera durata della vita adulta i legami affettivi significativi hanno un’influenza altrettanto importante, sia sulla stabilizzazione della conoscenza di sè sino ad allora raggiunta, che sull’ulteriore progressione verso livelli strutturali sempre più complessi ed integrati.

Dato il lento sviluppo cognitivo, mentre da un lato il bambino comincia ad acquisire una conoscenza di sè ben prima della capacità di riflettere su di essa, dall’altro è in grado di trasformare questa percezione tacita e immediata di sè stesso in un appropriato senso di identità personale e di consapevolezza di sè soltanto a partire dall’adolescenza.

A partire dall’ adolescenza e dalla prima giovinezza emergono nuovi tipi di attaccamento - relazioni eterosessuali, sentimentali...- che acquistano la funzione prevalente di confermare, stabilizzare ed espandere ulteriormente tale senso di sè e la visione della vita ad esso connessa.

Le emozioni più intense che si possono esperire nel corso del ciclo di vita sono quelle che si producono nel corso della formazione, del mantenimento e della rottura delle relazioni significative.

La relazione con la madre viene vista come un sistema interattivo che organizza e regola il comportamento e la fisiologia del bambino fin dalla nascita. Le cure materne sono importanti non solo per l’alimentazione e la protezione dai pericoli esterni, ma per le continue sollecitazioni emotive e fisiche, alle quali è sottoposto il neonato. Questo è confermato dalle ricerche sugli animali (Taylor, 1987) che hanno dimostrato come la madre, attraverso una precisa variazione degli stimoli, regoli le funzioni biologiche della prole, favorendo un graduale sviluppo di capacità regolatrici autonome.

L’atteggiamento materno sembra svolgere un’importante funzione di regolatore biologico e comportamentale (Hofer, 1978) che, all’interno della relazione madre-figlio, permette a quest’ultimo di organizzare le esperienze corporee integrandole con gli altri aspetti del Sè fino all’acquisizione di un equilibrio psicosomatico valido ed indipendente. L’etologia con le sue osservazioni comportamentali ci ha permesso, nel corso di questo secolo, di acquisire tutto un insieme di informazioni su questo tipo di relazioni. La scoperta dell’importanza delle emozioni come fattori di motivazione e regolazione omeostatica, all’interno dei complessi processi di crescita che  si  susseguono  durante  il  ciclo  di vita, apre  una  nuova  prospettiva  nell’interpretazione  dei

fenomeni descritti nei pazienti psicosomatici.

John Bowlby (1969) ha per primo indicato nella sua teoria dell’attaccamento quanto l’essere umano sia spinto alla relazione da un bisogno sociale primario, un istinto di attaccamento che ha almeno la stessa importanza delle pulsioni sessuali e aggressive. Numerose prove (Harlow, 1958) suggeriscono che l’interesse per il mondo esterno e i legami affettivi non sono semplicemente la conseguenza di comportamenti tesi alla gratificazione di pulsioni primarie, quali la fame o la sete, ma derivano da una tendenza innata a sviluppare relazioni sociali significative. Questi comportamenti di attaccamento tenderebbero a spiegare gli effetti devastanti sull’equilibrio psicofisico, con slatentizzazioni psicosomatiche, delle esperienze di separazione precoce e di perdita, quando avvengono prima che l’individuo sia capace di eleborarle (Bowlby, 1973, 1980).

Particolare importanza acquisisce, anche, l’esplorazione sociale, nella quale il bambino costruisce e mette alla prova strategie di interazione.

L’uomo impara tante cose dal proprio ambiente sociale: impara, per esempio, a trattenere i propri impulsi egoistici, a controllare la propria aggressività, a tenere in considerazione gli altri e, quindi, a rinunciare anche al soddisfacimento immediato di alcuni bisogni. Nel trattare con gli altri individui, l’uomo acquisisce conoscenza, competenza sociale, e impara a distinguere i partners di cui può fidarsi da quelli a cui deve rivolgersi con una certa cautela. In tal modo impara a riconoscere le posizioni d rango della propria società, il sistema di valori della propria cultura e si identifica con il proprio ruolo sessuale.

 

 

2.4

 

L’OTTICA SISTEMICO-PROCESSUALE NELLO SVILUPPO PSICOSOMATICO DEL SINTOMO

 

“L’obiettivo di un approccio sistemico-processuale alla psicopatologia è quello di elaborare un modello etiopatogenetico esaustivo, in grado cioè di spiegare come, a partire dall’interdipendenza unitaria tra attaccamento e differenziazione del Sè, possano prodursi specifici itinerari di sviluppo problematico. Questi, a loro volta, avviano la strutturazione di organizzazioni cognitive personali altrettanto specifiche, che in particolari situazioni di squilibrio, possono dare luogo a una serie di quadri emotivo-cognitivi-comportamentali che comunemente vanno sotto il nome di disturbi clinici” (Guidano, 1988).

In un approccio sistemico-processuale il tema di vita appare come un processo dinamico, che prende forma giorno dopo giorno e anno dopo anno, sulla base degli eventi significativi che hanno caratterizzato le transizioni importanti del ciclo di vita, del modo in cui il soggetto le ha interpretate e affrontate, e delle conseguenze che questo processo ha comportato.

I modelli disfunzionali di attaccamento si ripercuotono sullo sviluppo dei contorni del Sè costituiti da schemi emozionali e scritti nucleari, la cui natura problematica dipende sia dal loro contenuto - perdite, rifiuti, scene terrorizzanti - sia dall’intensità dell’arousal che di solito accompagna la loro attivazione.

Una perturbazione, in base a questo modello, che per intensità e qualità si presti ad essere esperita come schiacciante, vale a dire come un problema assolutamente centrale per la sopravvivenza stessa, e, quindi, ineludibile ma al tempo stesso irrisolvibile, come la perdita in età molto precoce, oltre ad alterare la qualità della crescita cognitiva costringe il soggetto a concentrare tutte le sue risorse nel tentativo di raggiungere un equilibrio adattivo in un ambito di esperienza estremamente limitato, distorto, e, quindi, scarsamente generalizzabile agli altri aspetti della realtà. La nozione di stress inaffrontabile e riferibile ad alcuni aspetti specifici dello sviluppo diventa comprensibile nella misura in cui viene sistematicamente riferita alle modalità soggettive di costruzione e assimilazione dell’esperienza. Alterazioni del rapporto accudimento-attaccamento riducono la possibilità nel bambino di differenziare e di confrontare le proprie sensazioni e le proprie emozioni con quelle degli altri, limitando, in ultima analisi, la differenziazione di un’adeguata gamma di emozioni personali. Ciò interferirà ulteriormente con la capacità di ordinamento e di decodificazione delle proprie sensazioni ed emozioni. L’elaborazione cognitiva ridotta o distorta retroagisce a sua volta sul livello emotivo, per cui molti schemi emozionali saranno via via sempre meno trasformati in corrispondenti contenuti cognitivo-semantici, verbalizzabili, e di conseguenza le informazioni incluse nelle sensazioni e nelle emozioni continueranno ad essere rappresentabili e rievocabili, in questo tipo di soggetto, soprattutto attraverso altri canali, come percezioni, meccanismi immaginativo-mnestici, schemi motori. In tal modo l’attivazione di questi schemi emozionali tende, da una parte, a essere espressa direttamente tramite reazioni viscero-muscolari e, dall’altra, a dare luogo all’emergere, nel flusso di coscienza individuale, di sensazioni e immagini piuttosto indecodificabili e incontrollabili. La tendenza dei modelli disfunzionali di attaccamento familiari a rimanere stabili nel tempo, induce un feedback positivo di automantenimento, nel quale le capacità cognitive vengono ostacolate e sopraffatte da perturbazioni emotivo-affettive incontrollabili.

Nell’ottica sistemico-processuale si ritiene che l’estrema varietà e variabilità delle manifestazioni psicopatologiche riscontrabili all’osservazione clinica, tra cui quella dei disturbi psicosomatici, possa essere ricondotta a modelli invarianti di chiusura organizzazionale, che sono in grado di produrre un’ampia varietà di modelli cognitivi, emotivi e motori nel tentativo di ordinare specifiche oscillazioni perturbative.

Diventa allora possibile identificare delle organizzazioni base di significato personali, la cui articolazione nel corso del ciclo di vita da luogo a modelli specifici, anche se variabili, di disfunzioni cognitive o sviluppo psicosomatico del sintomo ogni qualvolta si verifichino disequilibri della loro coerenza sistemica.

 

 

2.5

 

L’ESSERE UMANO COME ORGANISMO COMPLESSO E LA PROSPETTIVA PSICOSOMATICA NELL’INTERVENTO MEDICO

 

La teoria dei sistemi viventi, di cui abbiamo parlato, fornisce una cornice concettuale, in cui inserire lo studio dell’uomo nella sua realtà di organismo complesso. Naturalmente il fatto di identificare la cognizione con l’intero processo della vita - compresi le percezioni, le emozioni e i comportamenti -

e il fatto di interpretarla come un processo che non implica nè un trasferimento di informazioni nè rappresentazioni mentali di un mondo esterno, richiedono un’estensione radicale della nostra cornice di riferimento scientifica e filosofica. Una delle ragioni per cui questa concezione della mente e della cognizione è tanto difficile da accettare è che si oppone al nostro intuito e alla nostra esperienza quotidiana. In quanto esseri umani, usiamo spesso il concetto di informazione e costruiamo costantemente rappresentazioni mentali delle persone e degli oggetti che appartengono al nostro ambiente.

L’organismo umano non è solo un sistema costituito da cellule e organi, a loro volta costituiti da atomi e molecole, ma è anche un sistema individuale inserito all’interno di sistema sociale a propria volta facente parte di un ecosistema naturale inserito nel sistema solare. L’universo stesso può, quindi, essere concepito come una stupefacente architettura di sistemi. Per questa ragione contrapporre una psicologia individuale a una relazionale è un errore epistemologico che deriva da un uso improprio del termine sistemico.

Negli ultimi decenni, in seguito alla diffusione della cibernetica di seconda generazione e delle teorie costruttiviste, si è assistito ad una graduale valorizzazione dell’osservazione dell’individuo come organismo complesso, inserito in una fitta rete di sistemi. Ciò è coinciso con un interesse crescente da parte dei clinici per le problematiche relazionali.

Si parla di una teoria sistemica individuale, nella quale l’attenzione è centrata non solo sulle relazioni del paziente con il mondo esterno, ma anche sulle vicende del suo mondo interno.

Questa evoluzione del pensiero sistemico costruttivista ha una grande importanza per la psicosomatica contemporanea.

Un tentativo di applicare le teorie sistemiche in questo campo può essere già riconosciuto nell’opera di Alexander e appare ancora più esplicito nel modello bio-psico-sociale proposto da Engel (1977, 1980, 1992) che considera le relazioni non solo tra sistemi diversi - genetico, endocrinologico, neurologico, immunologico, psicologico e sociale -, ma anche tra livelli di sistemi diversi, dal subcellulare all’ambiente. Questo permette di concepire la malattia come il risultato di un’interazione tra più fattori, che possono essere studiati e affrontati attraverso l’applicazione di un intervento multidiplinare.

In rapporto allo sviluppo del pensiero scientifico contemporaneo la sfida della complessità impone, che la molteplicità dei punti di vista vale in riferimento alla molteplicità dei sistemi di riferimento categoriali, delle tradizioni scientifiche, delle scuole di pensiero e delle mentalità. In fondo l’imperativo della complessità consiste proprio nel pensare in forma organizzazionale, cioè nel comprendere la relazione profonda e intima fra sistema e ambiente, fra le parti ed il tutto (Morin, 1985).

L’approccio interdisciplinare, d’altronde, permette di comprendere meglio le complesse relazioni che passano tra fattori somatici, emotivi e psicosociali. Adottare un’ottica complessa, infatti, non significa negare la validità del proprio paradigma di riferimento, nè, tantomeno, considerare il proprio modello equivalente a ogni altro. Se anche non esistono verità assolute, vi sono situazioni che possono essere meglio affrontate adottando una particolare prospettiva. Sarebbe assurdo ritenere di curare un attacco di appendicite acuta sdraiando il paziente sul lettino di un analista. Il medico e lo psicologo devono avere la capacità di approfondire e impadronirsi del proprio modello di riferimento, ma senza considerarlo assoluto, mantenendo la consapevolezza che vi possono essere altre alternative valide e utili.

La relazione umana è fondamentale per il lavoro scientifico in ambito clinico.

L’integrazione in un approccio bio-psico-sociale riguarda anche la capacità di avvalersi di un modello teorico ben sperimentato, da affiancare, in particolari momenti, ad altri modelli che possono offrire una visione diversa di una situazione problematica aiutando a risolverla.

In una concezione moderna la psicosomatica deve, quindi, tenere conto della complessità delle esperienze umane e proporsi come un metaparadigma che, rifutando ogni estremismo, permetta l’utilizzo e l’integrazione di vari punti di vista tollerandone le contraddizioni e le differenze.

Ogni malattia deve essere considerata un disturbo complesso e potenzialmente invalidante sia sul piano fisico che psicologico. E’ necessaria una valutazione diagnostica e un intervento terapeutico che integri tutti questi aspetti.

Oggi, è sempre più evidente come il modello biomedico tradizionalmente adottato in campo medico e che incorpora il punto di vista cartesiano rappresenti una prospettiva limitata. La “malattia psicosomatica “ deve essere curata secondo una prospettiva multifattoriale, che tenga conto di tutti gli aspetti somatici e psicosociali significativi.

Il clinico dovrebbe essere in grado di individuare la strategia da seguire considerando caso per caso la diversa gravità e natura del disturbo, gli aspetti biochimici, fisiologici, le sue implicazioni emotive, relazionali e sociali.

Si ritiene che le terapie integrate, basate sulla combinazione di interventi medici, educativi e psicologici, permettono di affrontare più adeguatamente il disturbo nell’ambito della realtà complessa dell’individuo.

Non va dimenticato come importante è l’adozione di un atteggiamento di flessibiltà ed elasticità da parte della classe medica, poichè è già conosciuta la difficoltà a organizzare e gestire terapie integrate, oltre al fatto che medici e psicologi manifestano molte resistenze trovandosi spesso impreparati ad affrontare i problemi relazionali ed emotivi che insorgono in questo tipo di collaborazione.

Fondamentale è il rispetto del principio secondo cui è necessario integrare i diversi interventi medici e psicologici sia nel momento diagnostico che in quello terapeutico. Nella fase acuta di un infarto al miocardio, ad esempio, risulterà particolarmente importante un’assistenza cardiologica, ma dopo la dimissione dall’ospedale risulteranno più evidenti le problematiche psicologiche, per cui occorrerà riconoscere un’eventuale sofferenza depressiva ed aiutare il paziente ad acquisire una maggiore autonomia e ad incrementare le sue capacità di coping innanzi ad un life event che si è posto nel suo ciclo di vita. Questo tipo di intervento lo aiuterà ad elaborare un sistema rappresentazionale che integra una maggiore comprensione della realtà e ad inserire l’esperienza vissuta nella consapevolezza del Sè, alimentando quel rapporto dinamico tra l’esperire del Sè e lo spiegare del Mè nell’individuo, che rappresenta il processo propulsivo su cui si fonda l’evoluzione della struttura di personalità del soggetto ed il mantenimento di un punto di equilibrio nel rapporto mente-corpo.

Gli studi etologici, per primi, hanno evidenziato che nel mondo animale in alcune circostanze si forma un’organizzazione sociale che favorisce la collaborazione. Una struttura ad anello emerge anche nella vita sociale degli esseri umani, quando si condivide il criterio della collaborazione, rispettando le competenze individuali e aiutandosi reciprocamente, al fine di perseguire l’obiettivo comune del benessere del paziente.

Non possiamo in fondo aspettarci che un paziente raggiunga un maggiore equilibrio emotivo e corporeo, se nella mente e nel modo di operare di chi si occupa di lui questi aspetti non sono sufficientemente integrati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO III

 

L’INTERVENTO PSICOFISIOLOGICO IN UN’OTTICA COSTRUTTIVISTA E COMPLESSA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3.1

 

PSICOFISIOLOGIA E CONCEZIONE EVOLUZIONISTICA DELL’EMOZIONE

 

Il cervello umano è il comune denominatore di tutte le scuole di pensiero che si occupano del comportamento dell’uomo. Benchè il cervello continui a disorientare e meravigliare i ricercatori nel campo delle neuroscienze, le tecniche innovative della ricerca stanno rapidamente rivelando l’organizzazione funzionale del cervello (Turpin, 1989).

Nell’ambito delle neuroscienze cognitive una delle discipline che cerca di studiare attentamente i rapporti di interazione tra attività mentali e parametri biologici è la psicofisiologia costruttivista (Paillard, 1973). Infatti, la rielaborazione della tematica del rapporto mente-cervello (Popper, 1982; Kuhn, 1977) ha reso possibile la differenziazione di un background epistemologico, improntato alle teorie motorie della mente, ed il passaggio dal riduzionismo dei primi autori ad un’ottica della complessità, per cui, oggi, rappresenta una delle aree più promettenti della ricerca nel campo delle neuroscienze (Curtis et al., 1972).

Mangina (1983) ha definito questa disciplina come “la scienza che studia la fisiologia delle funzioni psichiche, attraverso le relazioni tra cervello, corpo e comportamento, nell’individuo vivente che interagisce con l’ambiente”.

Per Andreassi (1989) “La psicofisiologia rappresenta lo studio delle relazioni tra manipolazione di variabili psicologiche e le conseguenti risposte fisiologiche, misurate nell’individuo vivente, allo scopo di promuovere la comprensione delle relazioni tra processi mentali e funzioni somatiche”.

All’interno della interpretazione complessa dell’uomo come sistema autopoietico, proposta dalla teoria generale dei sistemi e dalla prospettiva motorio-evolutiva della conoscenza umana (Guidano, 1988), il rapporto tra mente e cervello sarebbe rappresentato da una diade, nell’ambito della quale uno degli elementi costitutivi il cervello sarebbe definibile in termini fisici, mentre l’altro, la mente, non è facilmente descrivibile secondo le categorie del mondo materiale (Popper, 1982).

Definire la mente e il cervello in termini ontologici non rientra nei compiti e negli obiettivi dello psicofisiologo; il problema assume essenzialmente un significato euristico.

Secondo un’ottica costruttivista gli studi sulla realtà fisica del cervello, biochimica, anatomica, psicofisiologica, e quelli sulla organizzazione della mente in termini gnoseologici, articolazione, sviluppo delle differenti modalità di conoscenza, altro non sarebbero che modalità parcellari di descrizione di un sistema complesso, che può essere definito in modo più soddisfacente attraverso la ricostruzione simultanea dei vari livelli e sottosistemi, quali quello biologico, mentale, relazionale e storico (Varela, 1979).

In base a queste teorie, il cervello non è passivamente sottoposto a degli inputs, ma informazioni in arrivo costituiscono sempre il risultato di un confronto tra dati esterni e patterns di attività spontanei nell’organismo. Come precedentemento detto, secondo le teorie motorie della mente il sistema nervoso non funzionerebbe come un passivo recettore e associatore di dati sensoriali, ma come attivo organizzatore e selezionatore dei dati di realtà (Weiner, 1977).

Miller, Galanter e Pribram (1960) introdussero in psicofisiologia il concetto di unità TOTE, secondo il quale uno dei meccanismi fondamentali di funzionamento del sistema nervoso centrale è il “feedback”. Il meccanismo si avvia in presenza di incongruenza, ossia di discrepanza tra i modelli interni e i patterns esterni di stimolazione. Ogni informazione non agisce per il suo contenuto energetico, bensì informativo, e, tale informazione assume precise caratteristiche, non tanto per le sue proprietà intrinseche, quanto, per il significato che acquisisce in rapporto allo stato interno del sistema nervoso stesso.

Pribram (1971) afferma che le percezioni sono più “un riflesso dei patterns di risposta, nel cervello, ad un input, che una risultante dei patterns di stimolazione”.

Secondo la formulazione della psicofisiologia strutturalista si distinguono due modalità di processamento dell’informazione nel sistema nervoso centrale, quella olografica e quella analitica (Pribram, 1971). La prima si avvale di un codice analogico e spaziale, capace di acquisire, trasferire e memorizzare enormi quantità di informazioni, che costituiscono il background di riferimento dell’intero sistema di conoscenza umano (Rumelahrt & McLelland, 1991). La seconda utilizza un codice digitale, processa una quantità di informazioni più limitata, ma in termini più accurati ed in modo consapevole (Sperry, 1974). Questa differente modalità di funzionamento del sistema nervoso trova riscontro nella specializzazione emisferica. L’emisfero sinistro sarebbe specializzato nella elaborazione digitale dell’informazione ed opererebbe più nella conoscenza esplicita e consapevole, l’emisfero destro sarebbe più versato nella codificazione olografica e spaziale ed interverrebbe essenzialmente nell’ambito della conoscenza tacita (Springer & Deutsch, 1981).

L’acquisizione di questi dati impone sempre più la necessità di un approccio, consistente nell’analizzare il sistema nervoso e la organizzazione della conoscenza nelle dinamiche del loro reale funzionamento, in rapporto con l’ambiente, piuttosto che cercare di isolare le singole variabili.

Le più recenti acquisizioni nell’ambito della psicofisiologia costruttivista hanno dimostrato che la connotazione qualitativa del fatto emotivo dipende dalla elaborazione del feedback viscerale e della situazione ambientale. Schachter e Singer (1962) hanno introdotto l’elemento di valutazione cognitiva del feedaback autonomico. La valutazione cognitiva non interviene solo sulla decodificazione dell’arousal, ma, anche, sull’interpretazione degli stimoli (Lindsay & Norman, 1983).

Pribram (1974) ha formulato l’importante concetto che ogni stimolo percettivo, proveniente dall’ambiente, non provoca di per sè, le modificazioni viscerali, ma le determina nella misura e nella qualità che scaturiscono dalla interpretazione della situazione da parte dei processi cognitivi, guidati dalla memoria. Tale impostazione attribuisce allo stimolo il significato di informazione ed alla risposta quello di risultato finale di una complessa valutazione cognitiva.

L’emozione è un’antica area privilegiata della psicofisiologia. Il cuore che pulsa, le mani sudate, il tremore delle mani che accompagna sensazioni di intensa paura, sono correlati in modo così evidente all’emozione che il loro studio appare una componente scontata nell’approccio scientifico.

Le emozioni compaiono in esseri che hanno subito un progressivo modellamento fino alla loro forma attuale nel corso di una lunga evoluzione biologica. Nel caso degli esseri umani, questa evoluzione è arrivata a uno stadio, in cui il comportamento dell’individuo è determinato più dall’apprendimento culturale e individuale che dall’influenza diretta dei meccanismi genetici.

Come già constatato da Darwin (1872) le emozioni devono avere un importante ruolo funzionale per gli organismi viventi, altrimenti non si spiegherebbe come mai hanno giocato un ruolo discriminativo nella selezione naturale. Se le emozioni sono viste come elementi del comportamento motivato, il loro ruolo funzionale viene ad essere nella maggior parte dei casi di facilitazione, mantenimento, integrazione, amplificazione, guida e rinforzo del comportamento (Weinrich, 1980).

In un’ottica evoluzionistica, l’emozione dell’individuo riflette un livello motivazionale più alto per uno schema comportamentale che ha avuto un ruolo critico per la sopravvivenza della specie. In aggiunta al ruolo motivazionale, l’espressione delle emozioni assolve a funzioni comunicative biologicamente importanti. Ad esempio, il salto verificatosi nello sviluppo della neocorteccia dei primati, nel corso dell’evoluzione, è correlato con un incremento della complessità dei comportamenti in generale, ma anche con un incremento della complessità e del controllo sulla muscolatura facciale (Izard, 1979). La mimica facciale ha un ruolo preminente nell’integrazione sociale di gruppi di primati (Chevalier-Skolnikoff, 1973) e nella vita sociale dell’uomo.

I modelli fondamentali dell’emozione hanno una base innata, ma ciò non implica necessariamente che tali emozioni siano espresse allo stesso modo in culture diverse o in diversi strati sociali. Chiaramente l’apprendimento individuale deve intervenire a diversi livelli compresi tra lo stimolo in grado di scatenare l’emozione e la topografia della risposta emozionale che eventualmente ne deriva. Quindi sia la condizione che induce l’emozione, che l’espressione dell’emozione possono essere modificate.

In accordo con la prospettiva biologica si assume che contingenze di ordine evoluzionistico abbiano progressivamente adattato le capacità di apprendimento a rispondere selettivamente alle richieste ecologiche. Si  ipotizza  che  le  associazioni  si  formino  più  facilmente  tra  eventi ecologicamente

correlati che non tra eventi ecologicamente casuali.

La catena di eventi che va sotto il nome di emozione non si esaurisce con gli eventi in uscita, sotto forma di modificazioni fisiologiche, ma può ricollegarsi con gli effetti cognitivi derivati dalla percezione dell’attivazione fisiologica. In altri termini, le modificazioni fisiologiche, sia nel sistema somatico che nel sistema nervoso autonomo, possono a loro volta contribuire all’emozione attraverso circuiti di retroazione che convogliano le informazioni relative alla risposta in direzione centrale, per la loro valutazione.

Secondo la teoria di Schacter (1975) l’attivazione fisiologica assume la rilevanza di un fattore a valenza emozionale assolutamente neutra. E’ solo attraverso il contributo dell’informazione proveniente dall’ambiente che essa diventa parte integrante dell’esperienza emotiva.

 

 

3.2

 

METODOLOGIA DELL’INDAGINE PSICOFISIOLOGICA E APPLICAZIONI IN MEDICINA PSICOSOMATICA

 

La specificità della medicina psicosomatica deriva essenzialmente dall’integrazione delle conoscenze raccolte con l’adozione di paradigmi scientifici appartenenti a discipline differenti, biologia, fisiologia, medicina, psicologia. Ciò comporta ovviamente anche l’utilizzo dei metodi di conoscenza e degli strumenti caratteristici di ognuno di essi.

Il contributo della psicofisiologia, basata su una logica falsificazionista, non è, come ho precedentemente sottolineato, di fornire una conoscenza definitiva ed assoluta del sistema nervoso, bensì rappresenta una delle possibili modalità di raccolta di dati biologici, da non estrapolare, bensì integrare con altri punti di vista.

Un argomento riguardo al quale la psicofisiologia ha fornito un importante contributo è la concettualizzazione e la spiegazione della fenomenologia emotiva.

Questa concezione sottolinea come l’attivazione degli effettori viscerali non è conseguenza diretta della stimolazione ambientale, ma è effetto e risultato di una elaborazione sul contenuto informativo della situazione-stimolo (Leventhel, 1979).

Ogni essere umano è continuamente impegnato nel tentativo di adattarsi alle richieste dell’ambiente esterno e a quelle del proprio organismo. Lo stress induce la stimolazione delle strutture cerebrali, in particolare il sistema limbico, responsabili delle nostre emozioni. Dall’altro lato i processi mentali, attraverso la mediazione dello stesso sistema nervoso, come abbiamo più volte sottolineato, e di quello endocrino, interagiscono con l’attività dell’intero organismo.

Le emozioni, quindi, possono essere concepite come degli eventi di origine multisistemica, che oltre ad essere vissute dall’individuo come fenomeni psicologici, si esprimono anche sul piano fisiologico come processi corporei.

La psicofisiologia studia con metodo rigoroso le modificazioni anatomo-funzionali dell’organismo umano, indotte da eventi soggettivo-cognitivi e comportamentali diversi (Stegagno, 1982, 1986, 1991).

Gli psicofisiologici si avvalgono di metodi e di strumenti che permettono la registrazione e la quantificazione contemporanea di dati sia psicologici che biologici. L’obiettivo non è quello di stabilire una relazione causale lineare tra eventi di natura mentale ed eventi di natura corporea o viceversa, ma quello di individuare delle correlazioni, cioè delle associazioni significative tra le risposte fisiologiche registrabili e i vissuti emotivi che le accompagnano.

A tal fine vengono utilizzati procedimenti d’indagine provenienti da ambienti diversi.

Per lo studio degli aspetti di natura psicologica ci si avvale di strumenti propri della psicologia, quali tests, scale e questionari di autovalutazione, interviste semistrutturate e analisi di indici comportamentali. Gli aspetti fisiologici vengono rilevati, invece, con tecniche utilizzate in biologia e in  medicina  che  permettono la registrazione e la misura delle modificazioni corporee associate agli

stati emotivi.

In concomitanza di una emozione, infatti, si verifica un’attivazione del sistema nervoso e di quello endocrino che induce nell’organismo una serie di modificazioni.

Ognuna di queste produce un segnale biologico o biosegnale che può essere considerato un indice di attività della parte del corpo che lo ha prodotto. Ogni organismo vivente, quindi, trasmette informazioni attraverso un complesso sistema di segnalazioni che sono in relazione con il funzionamento delle sue strutture anatomiche.

I biosegnali possono essere di natura elettrica (elettromiogramma, elettrocardiogramma......), non elettrica (modificazioni pressorie, volumetriche, termiche.....) o biochimica (ormoni, enzimi, elettroliti, neurotrasmettitori...). Sono di origine endogena, quando vengono prodotti dallo stesso organismo, come nel caso della frequenza cardiaca o della temperatura cutanea, di origine esogena, quando generati da sollecitazioni esterne, un esempio tipico è l’attività elettrodermica al passaggio di una debole corrente elettrica, oppure mista, quando la sorgente di energia viene introdotta all’interno dell’organismo, come quando si introducono sonde elettriche o sostanze radioattive.

Una volta intercettati, attraverso sonde, sensori o elettrodi, i biosegnali vengono di solito convertiti in segnali elettrici, amplificati sino ad essere apprezzabili e alla fine registrati e riprodotti con strumenti analogici, come oscilloscopi e poligrafi, o digitali, come computer.

Solitamente queste procedure vengono applicate all’interno di un laboratorio di psicofisiologia, nel quale le varie fasi dello studio, dalla intercettazione del segnale alla registrazione, possono svolgersi in condizioni il più possibile controllate.

In alcuni casi è possibile applicare la metodologia psicofisiologica anche al di fuori di un laboratorio, ottenendo dati più attendibili dal punto di vista clinico, nonostante la situazione in vivo sia meno controllabile di quella sperimentale.

Quando i biosegnali sono correlati a un parametro psicofisiologico vengono indicati con il termine “indice psicofisiologico” (Stegagno, 1986,1991).

L’indagine psicofisiologica viene ampiamente utilizzata nell’ambito della Medicina Psicosomatica: la registrazione del biosegnale, infatti, relativo alla funzione o apparato interessato dalla malattia è di grande utilità sia nella fase di assessment, per la formulazione della diagnosi, sia in quella terapeutica, per la possibilità di apprendere, con metodiche di biofeedback, il progressivo controllo del parametro disfunzionale.

I parametri che sono stati individuati come capaci di fornire informazioni attendibili, su attività psichiche, sia emotive che cognitive sono molteplici (Andreassi, 1989).

Tra questi, in riferimento alla Cardiologia Psicosomatica, risultano di notevole interesse il monitoraggio di parametri quali l’attività elettrodermica, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. 

 

Attività elettrodermica

La pelle, come qualsiasi sistema biologico, si comporta come un resistore. Molteplici studi hanno dimostrato, che esiste una relazione tra stimoli di diversa natura e variazioni della resistenza cutanea (Prokasy & Raskin, 1973). Un rumore improvviso, una domanda o un movimento effettuato dal soggetto sono seguiti, dopo circa 2 secondi, da una caduta della resistenza elettrica di alcuni distretti cutanei. Questa risposta transitoria, denominata riflesso psicogalvanico, ha una forma d’onda caratteristica, con un tempo di salita compreso tra 1 e 2 secondi e un tempo di discesa più lungo (Edelberg R., 1970). Il tempo di latenza medio si aggira intorno a 1,8 secondi. Il valore della resistenza della cute può variare, nei diversi individui, tra 10.000 e 500.000 Ohm/cm2 (Venables & Christie, 1973).

L’unità anatomo-funzionale responsabile delle modificazioni elettriche cutanee è la ghiandola sudoripara di tipo eccrino (Venables & Christie, 1973). Tali ghiandole ricoprono tutto il corpo, ma sono particolarmente concentrate sulle superfici palmari e plantari (2000 per centimetro quadro). Esse sono innervate dalla porzione simpatica del sistema nervoso vegetativo, ma, eccezionalmente, presentano una trasmissione colinergica, tipica del sistema parasimpatico. L’aumento della conduttanza cutanea in seguito ad attivazione simpatica è correlato all’incremento della secrezione sudoripara. Un ruolo determinante nelle variazioni della conduttanza cutanea hanno i dotti ghiandolari, così come la struttura del derma e dell’epidermide. Il meccanismo di natura epidermica sarebbe riconducibile ad alterazioni della permeabilità dell’epidermide, dovuta ad una modificazione delle caratteristiche della membrana delle cellule che la compongono. E’ molto probabile, però, che modificazioni dell’attività elettrodermica siano da ricondursi a fenomeni vasomotori, che condizionano la temperatura cutanea e, quindi, la velocità di evaporazione del sudore.

Per quanto riguarda i centri nervosi superiori, due sono i sistemi che partecipano a promuovere e controllare l’attività elettrodermica. L’area 6 di Brodman, se stimolata, provoca un incremento dell’attività elettrodermica (Schwartz, 1937). Un altro centro, che controlla l’attività elettrodermica, è stato individuato nella corteccia limbica (Isamat, 1961). La via nervosa che parte dall’area 6 di Brodman è compresa nel fascio piramidale. Oltre a questa via piramidale ve ne è presente una seconda che prende origine dall’ipotalamo e raggiunge i gangli spinali simpatici (Wall & Davis, 1951). I centri ipotalamici ricevono fibre dalla regione limbica e costituiscono, insieme a queste aree, il sistema che provoca l’attività elettrodermica nelle situazioni emozionali. Tali centri ricevono influenze facilitatrici o inibitrici da parte della formazione reticolare. In particolare, la porzione centro-mediale della sostanza reticolare bulbare espleta un’azione inibitrice sull’attività elettrodermica, facilitando le attività trofotrofiche e ciò si realizza nelle condizioni di distensione psicofisica (modificazioni toniche). La porzione laterale della formazione reticolare diencefalica svolge un’azione eccitatrice sull’attività elettrodermica (risposte fasiche).

Esistono due procedure di monitoraggio dell’attività elettrodermica: la prima consiste nel far passare una lieve corrente elettrica attraverso la cute e nel misurarne la resistenza al passaggio, tale metodo è definito esosomatico; la seconda misura l’attività elettrica spontanea sotto forma di tensione, cioè una differenza di potenziale: tale metodo è definito endosomatico.

Si descrivono due tipi di attività elettrodermica: fasica e tonica.

Le risposte fasiche sono generalmente indicatrici di rapidi momenti di attivazione, conseguenti ad una risposta di ansia, ad una elicitazione emozionale, ad una situazione conflittuale.

Il parametro “livello basale di resistenza elettrodermica” (SRL, Skin Resistance Level) costituisce, invece, un indice dello stato generale di attivazione e vigilanza. Un incremento dell SRL è indicativo di un progressivo rilassamento psicofisico. Il monitoraggio dello SRL è particolarmente utile, quando si vuole oggettivare l’entità del rilassamento psicofisico conseguito mediante l’apprendimento e la pratica di varie tecniche di autocontrollo.

Il segnale può essere rilevato mediante elettrodi e/o sonde e successivamente amplificato e registrato. Queste funzioni possono essere svolte da un poligrafo, un apparecchio, cioè, provvisto di più ingressi che fanno capo ad altrettanti sistemi di registrazione a penna scrivente. Agli ingressi vengono collegati canali intercambiabili per mezzo dei quali avviene la rilevazione, la trasduzione e la preamplificazione di vari parametri biologici.

Le apparecchiature di biofeedback si differenziano da quelle progettate in funzione della sola registrazione dell’attività elettrodermica in quanto fornite di display, cioè un sistema di segnalazione per il paziente, in genere ottico e/o acustico, dell’andamento dell’attività elettrodermica. Il diplay può essere di tipo analogico, binario o digitale. Il diplay analogico varia in modo perfettamente simile alle variazioni del parametro elettrocutaneo analizzato. Tale variazione può essere in intensità, cioè riguardare l’ampiezza del segnale in uscita, o in frequenza. Così se il display è acustico si avrà, nel primo caso, un aumento o una diminuzione dell’intensità del suono emesso dell’apparecchio; nel secondo una modificazione delle caratteristiche del suono che diventerà più o meno acuto.

Il display binario non fornisce indicazioni quantitative sulle entità delle variazioni del parametro analizzato, ma solo sulla direzione. Quindi, si potrebbe avere in questo caso un apparecchio che emette un suono grave, se la resistenza elettrocutanea diminuisce, o acuto, se aumenta, ma senza che l’entià della variazione influisca sulle caratteristiche del suono-display.

Il diplay digitale, invece, trasforma il segnale in numeri che vengono mostrati al paziente.

Frequenza cardiaca

La frequenza cardiaca è uno degli indici principali dell’attività del sistema nervoso autonomo. Un aumento del tono simpatico provoca un incremento della frequenza cardiaca, mentre un maggior tono del parasimpatico provoca una sua diminuzione. La reattività cardiaca, quindi, costituisce un indice clinico importante. Lo studio delle aritmie sinusali legate alla respirazione, ad esempio, fornisce dati preziosi sull’attività reciproca dei sistemi simpatico e parasimpatico.

La frequenza cardiaca è un parametro facilmente monitorabile utilizzando sistemi foto-ottici, che, applicati ad un dito della mano, registrano le singole onde sfigmiche sistoliche. Un integratore ed un display visivo e/o acustico completano l’apparecchiatura (Scrimali & Grimaldi, 1982).

Un numero crescente di studi, negli ultimi anni, ha dimostrato la possibilità, in quasi tutti i soggetti normali, di poter controllare volontariamente entro certi limiti  i valori della frequenza cardiaca. In tutti questi studi è stato applicato sistematicamente un feedback centrato sulla funzione monitorata, fornendo al soggetto un feedback binario o proporzionale (Pancheri, 1979).

Le possibilità di controllo volontario della frequenza cardiaca sono state anche esplorate in pazienti cardiopatici con insufficenza coronarica cronica, dimostrata elettrocardiograficamente. Una serie di studi condotti su soggetti coronaropatici messi a confronto con dei controlli hanno mostrato come i pazienti non siano in grado se non in misura minima di controllare volontariamente con l’apprendimento la frequenza cardiaca.

Questo risultato si è rivelato estremamente interessante da un punto di vista psicosomatico e psicofisiologico, in quanto depone per una iporeattività del sistema cardiocircolatorio a stimoli psicologici mediati dal SNV nei pazienti coronaropatici. Senza trascurare la possibilità che tale iporeattività sia secondaria alla malattia, si può formulare un’ipotesi psicosomatica alternativa a quella classica che considerava la malattia coronarica determinata, fondamentalmente, da una ipereattività del sistema cardiocircolatorio agli stimoli emozionali. Secondo questa ipotesi alternativa si potrebbe considerare l’apparato cardiovascolare dei coronaropatici, come caratterizzato da una ridotta capacità di adattamento funzionale alle stimolazioni emozionali (Troyer, Twentyman, Gatchel, Lang , 1973; Shapiro & Schwartz, 1972).

Un punto importante è rappresentato dalla dipendenza del controllo volontario della frequenza cardiaca da altre funzioni. E’ stata esclusa con certezza un’influenza della respirazione sulla variabile controllata in biofeedback, mentre appaiono di maggiore interesse i rapporti tra controllo della frequenza cardiaca e controllo della pressione arteriosa. Sembra che il sistema nervoso centrale umano, in particolari condizioni di addestramento, sia in grado di apprendere a controllare volontariamente più di una funzione contemporaneamente.

 

Pressione arteriosa

L’addestramento al controllo volontario della pressione arteriosa sistolica e diastolica presuppone l’acquisizione di metodi non cruenti di rilevamento continuo della PA, al fine di fornire al soggetto il segnale di feedback necessario. E’ stata messa a punto un’apparecchiatura sofisticata e precisa che non fa uso del bracciale sfigmomanometrico, ma misura la velocità dell’onda sfigmica, che attraversa l’arteria brachiale, mediante sensori che rilevano la pulsazione a livello brachiale e radiale. Questi metodi sono basati sulla considerazione che tale velocità è direttamente proporzionale alla distensibilità delle arterie e alla pressione arteriosa media (Gribbin, Steptoe, Sleight, 1976): il feedback è dato da un segnale proporzionale al tempo intercorrente tra il rilevamento di un’onda R sull’elettrocardiogramma e la prima comparsa di un’onda sfigmica al polso radiale. Il soggetto riceve un’informazione continua attraverso l’accensione di leds su una barra colorata o attraverso un suono, oltre che il valore digitale, circa la sua pressione in ogni istante. Di conseguenza, maggiore è la velocità dell’onda sfigmica maggiore è la pressione sanguigna. La Pulse wave velocity riflette le modificazioni pressorie e permette di istituire un feedback fedele (Blanchard et a., 1979; Goldman et al., 1975; Kleiman et al., 1977).               

Da varie esperienze effettuate è stato dimostrato che il tempo di transito (TR.TI) dell’onda sfigmica è  inversamente  proporzionale  alla pressione arteriosa media. Esiste, infatti, una correlaione di tipo

lineare tra tempo di transito e pressione arteriosa media e inversamente proporzionale. La pressione arteriosa media può essere calcolata, sommando alla minima 1/3 del dislivello esistente tra pressione minima e massima. In questo tipo di procedura sperimentale, si può, quindi, rilevare la pressione arteriosa sistolica e diastolica prima dell’inizio della seduta ed al termine della stessa, annotando i tempi di transito relativi; i punti si possono riportare su un grafico e tracciando una retta che passa tra questi due punti si ha la taratura del sistema, essendo possibile, attraverso il grafico stesso, ricavare la pressione arteriosa media corrispondente ad ogni tempo di transito. Ogni taratura è valida solo per il paziente in esame.

Soggetti normali possono aumentare o diminuire sia la pressione sistolica che diastolica fino al 15% rispetto al baseline (in media 2 mm/Hg in aumento e 5-6 mm/Hg in diminuzione) (Shapiro & Schwartz, 1972).

Le riduzioni pressorie ottenute possono raggiungere il 20-30% in media rispetto ai valori di baseline. Un problema importante sino ad oggi incontrato è il mantenimento dei risultati ottenuti al di fuori del laboratorio.

 

 

3.3

 

ASSESSMENT PSICOFISIOLOGICO E VALUTAZIONE IN PSICOSOMATICA

 

L’assessment psicofisiologico iniziale, nell’ambito della clinica comportamentale, è volto a ottenere una precisa valutazione dei problemi attuali del soggetto. Un assessment appropriato fornisce sia ipotesi sia misurazioni. Dall’assessment emergono ipotesi relative ai meccanismi processuali attraverso i quali si sono sviluppati i problemi e i disturbi attuali e ipotesi relative alle strategie terapeutiche che sembrano più appropriate nel caso in esame. L’assessment iniziale offre parimenti una mole relativamente ampia di misurazioni, le quali forniscono i dati necessari per costruire una o più linee base rispetto alle quali confrontare i progressi che si avranno nel corso dell’intervento terapeutico.

Nell’assessment iniziale, soprattutto nei casi in cui ansia e stress sono massicciamente coinvolti, vengono utilizzati tradizionalmente tre classi di indici:

 

            1) Indici soggettivi, ricavati direttamente o indirettamente da autoreferti del soggetto in causa. Rientrano in questa classe le informazioni raccolte nel colloquio clinico come quelle             raccolte mediante scale e questionari di autovalutazione;

 

2) Indici motori e comportamentali, ricavati dall’osservazione esterna del soggetto. Rientrano    in questa classe le misure ottenute mediante checklist e griglie di osservazione dal vivo o altre        procedure di registrazione del comportamento manifesto.

 

            3) Indici psicofisiologici, ricavati mediante apposita strumentazione di registrazione e riferiti     ad attività elettrodermica, frequenza cardiaca, pressione arteriosa.

 

L’impiego contemporaneo di una pluralità di indici ed il ricorso ad un approccio multidimensionale permette di concepire l’assessment delle risposte emozionali come valutazione distinta di tre sistemi di risposte relativamente indipendenti tra loro: cognitivo-verbale; comportamentale-motorio; psicofisiologico.

All’autonomia dei maggiori sistemi di risposta sul piano diacronico si deve aggiungere una ulteriore quota di relativa autonomia nella loro evoluzione temporale e nella loro plasticità in caso di cambiamento. Secondo il modello multidimensionale non ci si può attendere che un cambiamento, ad esempio un miglioramento in seguito ad intervento terapeutico, che viene riscontrato all’interno di un sistema di risposta, sia riscontrato all’interno degli altri sistemi.

Una tale discordanza può essere dovuta al frazionamento della risposta, implicato dal modello multidimensionale o alla desincronia intrinseca ai diversi sistemi di risposta. Se immaginiamo che l’intervento attuato sia un intervento a largo spettro, capace di influenzare positivamente i diversi sistemi, è possibile, in tal caso, che i cambiamenti si presentino, a livello dei differenti sistemi, non in modo simultaneo, ma secondo determinati sfasamenti temporali: si parla in questo caso di desincronia della risposta.

Fenomeni di desincronia e frazionamento sono riscontrati anche in varie problematiche psicosomatiche, nella valutazione del rilassamento ed, in particolare, nella valuatzione del dolore.

Tra l’autovalutazione soggettiva e la risposta psicofisiologica si riscontra non solo il frazionamento della risposta, ma addirittura correlazioni negative in alcuni studi su pazienti psicosomatici. In altre parole, coloro i quali indicano, nelle proprie valutazioni  soggettive, un basso grado di disturbo, sono proprio coloro nei quali le risposte psicofisiologiche indicano un grado di attivazione più elevato. In questi casi l’autovalutazione non correla con il grado di attivazione fisiologica riscontrata oppure correla inversamente (Anderson, 1981).

L’effetto si riferisce a situazioni di laboratorio, nel corso delle quali vengono presentati stimoli stressanti di intensità moderata: è improbabile che possa riscontrarsi in situazioni-stimolo altamente disturbanti. La spiegazione che viene offerta per tale effetto fa riferimento alla nozione di alessitimia, introdotta da Sifneos (1973), secondo cui la inabilità del soggetto a esprimere e a verbalizzare il proprio stato emozionale concorrerebbe in vari modi a favorire l’insorgenza di disturbi psicosomatici e nevrotici.

L’assessment psicofisiologico non è niente altro che quel segmento dell’assessment generale del caso, che è particolarmente devoluto alla valutazione della specifica configurazione del sistema di risposte psicofisiologiche in condizioni date. A seconda delle problematiche in causa tali variazioni possono riferisi:

 

            a) a una condizione semplicemente di riposo: parleremo in tal caso di livelli basali;

 

            b) alla presentazione di uno o più stimoli specifici: parleremo in tal caso di risposta agli             stimoli in oggetto;

 

c) a una o più condizioni di attivazione e/o stimolazione aspecifica: parleremo il tal caso            di ”profilo psicofisiologico di stress”.

 

Gli indici psicofisiologici che sono più frequentamente utilizzati si riferiscono all’attività elettromiografica, alla frequenza cardiaca ed all’attività elettrodermica.

L’assessment psicofisiologico è talora ripetuto nel corso di un trattamento, per la verifica dell’andamento del caso, e a termine del trattamento, per una migliore valutazione dei risultati conseguiti. Non è impossibile che il ricorso a una determinata modalità terapeutica determini miglioramenti specificatamente in un sistema di risposta, ma miglioramenti scarsamente apprezzabili a livello degli altri sistemi. E’ ovvio, però, che il criterio di successo di un intervento terapeutico deve passare per tutti e tre i maggiori sistemi di risposte per avere una reale significatività clinica.

La situazione sperimentale che consente una valutazione iniziale della reattività dei diversi repertori di risposta si realizza con la rilevazione del “profilo di stress”.

L’attività biologica del soggetto viene registrata in tre fasi successive, caratterizzate da tre condizioni diverse: riposo, stress, recupero.

Nella fase di baseline si registra la linea di base dei diversi canali di biofeedback. Già in questa fase è possibile osservare la presenza di singole disregolazioni.

Nella fase successiva, in cui vengono introdotti uno o più stimoli stressanti di tipo cognitivo, percettivo, acustico, si possono notare diverse eventualità. Se il soggetto non presenta disregolazioni iniziali, ma mostra valori alterati solo nella fase centrale con ripristino della linea nella fase finale, allora  non accumula  tensione  da stress ed è in grado  di  recuperare facilmente, cessata

l’azione degli stressors.

Se vengono mantenute le disregolazioni eventualmente presenti nella linea di base, il soggetto, in questo caso, è costantemente sotto stress e non riesce a recuperare rilassandosi.

Se, invece, si mantengono o si accentuano alcune delle disregolazioni già osservate nella fase di riposo iniziale, la reattività allo stress è limitata ad alcuni parametri ed il paziente può aver l’impressione di superare facilmente momenti di stress. Perciò, convinto di avere buone capacità di recupero, non riesce a spiegarsi l’origine dei disturbi legati a quelle disregolazioni di cui non è consapevole.

Nella terza fase di ripristino delle condizioni di partenza, si valuta la velocità di recupero del soggetto: più è bassa, maggiore la suscettibilità all’accumulo di tensione e, quindi, allo sviluppo di disturbi da stress.

Se si riducono, paradossalmente, le disregolazioni presenti nella prima fase, questo conduce all’ipotesi che le stimolazioni, benchè stressanti distolgano il soggetto da stimolazioni ansiogene.

Le ipotesi formulate sulla base del profilo di stress possono essere verificate mediante il profilo di rilassamento.

Anche il profilo di rilassamento comprende tre fasi: la prima e l’ultima sono presentate al paziente con la consegna di attendere passivamente, senza seguire alcun particolare pensiero, utilizzando il momento di pausa per riposare. La seconda fase viene caratterizzata dalla consegna di rilassarsi. Il profilo di rilassamento differisce da quello di stress, in quanto le fasi di riposo vengono presentate come momenti di attesa e la fase centrale lascia aperta la possibilità che il soggetto utilizzi il suo abituale modo di rilassarsi. Se esso risulta disfunzionale, si può ipotizzare che vi sia uno stile generale del soggetto eccessivamente perfezionistico che induce ulteriore stress.

Il valore euristico del profilo di rilassamento è rilevante, consentendo di capire che alcuni soggetti, dopo essere stati esposti a eventi stressanti, hanno un recupero lento e assente, perchè non sanno rilassarsi, e pone in primo piano l’esigenza di incentivare la terapia sull’acquisizione di un incremento della capacità di rilassamento.

 

 

3.4

 

BIOFEEDBACK E TRATTAMENTO DELLE MALATTIE PSICOSOMATICHE CARDIOVASCOLARI

 

Il termine biofeedback significa letteralmente “retro-informazione biologica” e fa riferimento a una particolare categoria di strumenti elettronici che consentono, collegandosi all’organismo umano attraverso sensori, di porre sotto il controllo volontario funzioni corporee normalmente al di fuori della consapevolezza e dell’intenzione volontaria.

Il concetto di feedback (Pancheri, 1979) è essenziale per la comprensione del fenomeno stesso della vita. A livello puramente biologico, l’omeostasi interna dell’organismo è garantita da un sistema complesso di meccanismi biochimici, ormonali e neurofisiologici autoregolati in modo continuo in base alla programmazione genetica caratteristica della specie. A livello di interazioni comportamentali tra individuo ed ambiente, analogamente, il processo adattivo e difensivo dell’organismo si plasma ad ogni istante, in base alle informazioni ricevute dall’esterno, alle modificazioni comportamentali mediate dal sistema muscolo scheletrico ed alle modificazioni indotte da queste ultime sulla situazione ambientale esterna.

Non vi è istante, nell’esistenza di ogni essere vivente, che non veda l’attivazione di continui e complessi meccanismi di feedback che garantiscono la conservazione sia dell’individuo che della specie attraverso una serie di loops di varia natura, gerarchicamente sovrapposti e mutuamente interagenti.

I meccanismi di autoregolazione dell’organismo sono generalmente automatici e, nell’uomo, esclusi dal campo di coscienza almeno per quanto riguarda le funzioni fisiologiche di base mediate dal sistema neurovegetativo, endocrino ed immunitario (Mc Farland, 1971). Questo automatismo, che si basa su di una relativa indipendenza funzionale tra sistema nervoso relazionale e sistema nervoso vegetativo, ha l’ovvia finalità economica di garantire l’omeostasi e l’adattamento fisiologico in modo autonomo, rispetto all’attività comportamentale impegnata in reazioni di attacco o fuga.

Talvolta, sia in condizioni normali che in occasione di eventi patologici, questa relativa indipedenza funzionale si può interrompere, e l’individuo diviene consapevole dello stato funzionale dei propri organi viscerali.

Il biofeedabck può essere definito come la tecnica che utilizza una strumentazione, in genere elettronica, per indicare all’individuo alcuni dei suoi eventi fisiologici interni, normali o anormali, sotto forma di segnali visivi o acustici (Basmajian, 1985), allo scopo di addestrarlo a controllare tali eventi altrimenti involontari o non percepibili, mediante il controllo dei segnali che gli vengono presentati. Questa tecnica fa sì che il controllo volontario dell’individuo chiuda un circuito aperto di feedback: da qui il termine biofeedback. A differenza di quanto avviene nei processi di condizionamento, il soggetto interessato deve essere motivato a modificare volontariamente i segnali, poichè questo conduce al raggiungimento di un qualche obiettivo.

Consentendo al paziente di fruire di tali informazioni, attraverso displays ottici o feedback acustici, è possibile fargli individuare, attraverso un processo di prove ed errori, quali tattiche a livello cognitivo ed emotivo, siano efficaci per ottenere il controllo e quali no e, quindi di stabilizzare, elettivamente, i meccanismi che portano alla regolazione del parametro in questione.

Lo sviluppo del biofeedback prese le mosse, negli Stati Uniti, alla fine degli anni Sessanta (Green, 1966; Plumlee, 1969).

Miller (1969) dimostrò, nell’animale, la possibilità di far apprendere il controllo di funzioni biologiche, regolate dal sistema nervoso neurovegetativo, quali la frequenza cardiaca e la attività vasomotoria cutanea periferica.

Nello stesso periodo, sempre negli Stati Uniti, un altro gruppo di ricercatori (Snyder et al., 1968; Kamiya, 1968) dimostrò che, anche nell’uomo, era possibile raggiungere l’autocontrollo di parametri quali la frequenza cardiaca, la vasocostrizione cutanea, i ritmi elettroencefalografici.

Negli anni Settanta le tecniche di biofeedback si sono diffuse in America ed in Europa (Brown, 1974).

A questa rapida diffusione ha, indubbiamente, contribuito lo sviluppo della microelettronica che ha consentito la messa a punto di strumentazioni sempre più compatte, maneggevoli ed economiche.

Successivamente il paradigma del biofeedback ha conosciuto un notevole cambiamento di prospettiva, passando da concezioni riduzioniste a teorizzazioni più articolate, improntate all’ottica dello human information processing e influenzate dall’epistemologia cognitivista (Lindsay & Norman, 1983; Meichenbaum, 1976; Lazarus, 1975).

La prima fase di sviluppo del biofeedback, sia in senso sperimentale che in ambito terapeutico, è stata fortemente influenzata dai principi comportamentisti dell’apprendimento mediante condizionamento operante.

Secondo questa concezione il feedback avrebbe svolto una funzione di rinforzo, stabilizzando, le risposte fisiologiche tendenti all’obiettivo del training e rendendo, invece, meno probabile l’emissione di risposte discrepanti rispetto al target di controllo prefissato.

Attualmente, la concezione del biofeedback come applicazione dei principi dell’apprendimento, mediante condizionamento operante, continua ad essere accettata da diversi autori.

In tempi più recenti, si è, comunque, sviluppata un’altra modalità interpretativa, improntata alla teoria dei sistemi ed influenzata dall’ottica cibernetica ed informatica dello human information processing.

Come abbiamo precedentemente sottolineato, la teoria dei sistemi ha conosciuto, negli ultimi decenni, un rapido ed intenso sviluppo in senso interdisciplinare.

Nell’ambito di questa teoria, un ruolo importante è giocato dallo studio delle possibilità e modalità di integrazione e controllo tra sistemi, siano essi di natura fisica che chimica o biologica.         Grande  importanza  assume  l’elemento  informativo  nella  regolazione  a  feedback  delle  attività

dinamiche del nostro organismo.

Così, il sistema corticale di controllo, sulle attività muscolari, non potrebbe operare, se non fosse continuamente informato della posizione dei segmenti scheletrici interessati, della pressione esercitata sulla cute e del grado di tensione e distensione dei vari gruppi muscolari coinvolti nei movimenti in questione.

Il sistema nervoso corticale non è in grado di controllare, adeguatamente, attività quali la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa o la vasocostrizione cutanea, non tanto per la mancanza di meccanismi o circuiti effettori, quanto, piuttosto, per la carenza di canali informativi.

Infatti, i dati relativi all’andamento delle funzioni biologiche citate sono convogliati a livello diencefalico e non raggiungono, se non in misura ridottissima, il livello della corteccia cerebrale.

Nella tecnica di biofeedback si opera, sostanzialmente, abilitando un canale informativo corticale, tipicamente quello visivo o acustico, a ricevere informazioni sull’andamento di queste funzioni.

In questo modo il controllo esercitato sulle funzioni, di norma, involontarie, verrebbe estrinsecato con un processo cosciente e volontario. Il feedback, quindi, non sarebbe un rinforzo, ma piuttosto un messaggio.

Lazarus (1975) ha interpretato tra i primi la tecnica di biofeedback, in un contesto psicoterapico-riabilitativo, come capace di incrementare le capacità di coping del paziente nei confronti delle stimolazioni temute. Secondo questo autore la quantità di ansia esperita dal paziente, di fronte ad una qualsiasi situazione problematica, è inversamente proporzionale alla consapevolezza di potere disporre di adeguati strumenti comportamentali e cognitivi per gestirla e risolverla efficacemente.

La consapevolezza di potere controllare le reazioni emotive, sviluppate nel corso del training di biofeedback, provocherebbe un incremento delle capacità di coping nei confronti delle situazioni temute.

Meichenbaum (1976) sottolinea che l’apprendimento di un’abilità di autocontrollo diviene terapeutica nella misura in cui consente di modificare l’assetto cognitivo del paziente.

Secondo questa teorizzazione, si realizzerebbero, durante un training di biofeedback, una fase di auto-osservazione, di modifica e di ristrutturazione dei sistemi di convinzione.

Il biofeedback si inserisce nel processo terapeutico psicosomatico a due livelli, uno più specifico, l’altro aspecifico. A livello aspecifico, il biofeedback trova la sua applicazione come mezzo per indurre la reazione di rilassamento in modo più efficace rispetto alle tecniche di rilassamento classiche, come rilassamento progressivo di Jacobson o training autogeno.

La riduzione del livello di ansia e la consapevolezza del paziente delle proprie aumentate capacità di controllo rappresentano i fattori terapeutici essenziali in quei disturbi somatici, nei quali la disfunzione organica è sostenuta e rinforzata dalla reazione di allarme cronico del soggetto.

Ma il biofeedback ha una possibilità di azione terapeutica in medicina psicosomatica assolutamente specifica, non centrata sul controllo dell’ansia e sull’induzione del rilassamento, bensì sul controllo diretto della funzione fisiologica alterata.

Le tecniche di biofeedback vengono orientate la maggior parte delle volte a sviluppare un controllo selettivo di specifiche risposte individuali, che sono centrali nella sintomatologia del soggetto in trattamento.

Un crescente numero di studi ha dimostrato la possibilità in quasi tutti i soggetti normali di potere controllare volontariamente entro certi limiti i valori della frequenza cardiaca. I risultati ottenuti mostrano come nei soggetti normali in giovane età sia possibile ottenere un innalzamento o un abbassamento volontario della frequenza cardiaca da 2 a 30 bpm rispetto al periodo di baseline.

E’ noto che in condizioni di stress la risposta psicofisiologica di soggetti ipertesi non si caratterizza tanto per l’ampiezza della risposta pressoria, quanto per la persistenza abnorme di questa risposta.

Questo peculiare pattern di risposta è stato riscontrato in relazione a un ventaglio estremamente ampio di stimoli che vanno dal “cold pressure test” a compiti di diverso impegno intellettivo, a interviste e situazioni interpersonali frustranti, a stimoli acustici.

L’ipereattività sembrerebbe essere un fenomeno specifico dello sviluppo iniziale dell’ipertensione, in accordo con quanto si riscontra nei figli di genitori ipertesi. Soggetti normotesi che abbiano uno o entrambi i genitori sofferenti di ipertensione, presentano in situazioni di stress risposte cardiovascolari di maggiore ampiezza di soggetti privi di storia di ipertensione negli ascendenti; questa accentuata reattività è riscontrabile anche in giovane età e nei soggetti di entrambi i sessi.

Non è priva di razionalità la tesi, secondo cui una tale reattività possa costituire un marker precoce nello sviluppo dell’ipertensione e possa ritrovarsi anche in popolazioni diverse dai figli degli ipertesi.

Il controllo in biofeedback della frequenza cardiaca apre sempre più valide prospettive nell’ambito dei disturbi funzionali cardiaci. Sembra opportuno approfondire gli studi clinico-sperimentali che non si limitano al condizionamento dei singoli aspetti o alle funzioni dell’apparato cardiocircolatorio, ma tentano di giungere al controllo di tutta l’attività cardiovascolare vista come un complesso funzionale integrato (Rapisarda & Scrimali, 1993).

Il biofeedback della pressione arteriosa con le dimostrate possibilità di controllo volontario nei soggetti normali hanno un naturale campo di applicazione clinica nell’ambito dell’ipertensione arteriosa. Le forme ipertensive nelle quali è stata dimostrata la reale efficacia sono quelle di ipertensione essenziale.

Le riduzioni pressorie ottenute sono generalmente notevoli, da 20% al 30% in media rispetto ai valori di base precedenti, sia per quanto riguarda la sistolica che per quanto riguarda la diastolica. Indubbiamente esso si rivela assai utile, come coadiuvante di ogni terapia antipertensiva e, in casi singoli accuratamente selezionati, esso può addirittura rappresentare il metodo terapeutico di elezione. La maggiore importanza si pone, tuttavia, a livello preventivo, data la reale possibilità di rendere completamente reversibile gli stati di ipertensione labile.

Negli ultimi anni sono stati realizzati un’insieme di lavori dedicati all’applicazione di trattamenti comportamentali a patologie cardiologiche psicosomatiche come l’ipertensione arteriosa. Nakao et al. (Nakao et al., 1997) hanno, presso l’Università di Tokyo, condotto un lavoro di ricerca su 30 pazienti ipertesi, suddivisi in due gruppi differenti, di cui uno integrava la terapia farmacologica con l’applicazione di tecniche di biofeedback, mentre l’altro si limitava a effettuare solo terapia con farmaci antipertensivi. Hanno registrato, nel gruppo seguito in trattamento con biofeedback, un decremento della pressione arteriosa sistolica, diastolica, della frequenza cardiaca, un incremento della temperatura cutanea ed una maggiore ampiezza d’onda nel ritmo alfa nel tracciato elettroencefalografico durante il trattamento. Secondo gli autori la ricerca ha dimostrato la possibilità di sopprimere la risposta pressoria allo stress nel paziente che presenta una vulnerabilità psicosomatica con l’uso di queste tecniche.

Paran, Amir e Yaniv (1996) hanno condotto, presso l’Università di Beer-Sheva in Israele, uno studio sulla possibile applicazione del biofeedback in pazienti affetti da ipertensione arteriosa di grado medio, monitorando la loro risposta a stress cognitivi sino a 6 mesi dopo la fine del trattamento e confrontando i risultati con un campione di soggetti ipertesi di controllo. Il trattamento ha previsto un ciclo di 10 sedute di biofeedback con istruzioni per il rilassamento e l’espletamento di compiti a casa. Dopo 6 mesi dalla fine della terapia hanno continuato a verificare un abbassamento della pressione arteriosa sistolica, diastolica, della frequenza cardiaca e della conduttanza cutanea, oltre alla possibilità di ridurre la terapia antipertensiva e di diminuire il livello di ansia di stato che questi pazienti solitamente presentano.

Cengiz et al. (Cengiz et al., 1997) hanno condotto negli Stati Uniti uno studio su un gruppo di pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale, il quale è stato seguito oltre che farmacologicamente con l’associazione del biofeedback per la pressione arteriosa. Hanno monitorato i pazienti in 10 giorni di baseline, in 10 giorni di trattamento con biofeedback e in 10 giorni dopo la fine del trattamento. Hanno osservato interessanti variazioni significative riferite alla pressione arteriosa sistolica, diastolica ed alla frequenza cardiaca. Gli autori ritengono i dati ottenuti molto significativi se finalizzati all’acquisizione da parte del paziente della capacità di rilassarsi in rapporto al rialzo pressorio soprattutto nel setting di vita reale.

 

 

3.5

 

LA METODOLOGIA DELL’AMBULATORY ASSESSMENT NEI FIELD STUDIES

 

L’ambulatory assessment rappresenta un nuovo approccio sviluppato nell’ambito dell’assessment comportamentale e psicofisiologico. Le osservazioni riferite ai tratti disfunzionali presenti nell’individuo sia sotto il profilo psicofisiologico che comportamentale vengono molto più efficacemente studiati nell’ambiente di vita reale del soggetto, rispetto al setting artificioso del laboratorio di ricerca (Fahrenberg & Myrtek, 1996).

Gli autori presentano un approccio nuovo sul piano metodologico, supportato da studi pilota effettuati con strumentazioni computer-assistite, che ha come finalità l’esplorazione dei limiti e delle potenzialità che il monitoraggio in condizioni real-life può presentare rispetto alla metodologia psicofisiologica classica.

L’ambulatory monitoring viene condotto con l’assistenza di sistemi di registrazione portatili e, in base agli studi effettuati, ne viene esaltata la utilità sia nella fase di inquadramento diagnostico, in riferimento a patologie come l’aritmia ventricolare, episodi ischemici, l’apnea durante il sonno, che nella definizione dei protocolli terapeutici.

La peculiarità delle ricerche effettuate con i field studies è rappresentata essenzialmente dall’osservazione condotta nell’ambiente di vita abituale del soggetto. La field research trova una lunga tradizione ed ampia applicazione nell’ambito dell’antropologia culturale, della ricerca sociale e dell’etologia.

In genere l’accettazione dell’assessment computer-assistita non è problematica e la compliance mostrata dai pazienti è soddisfacente. Queste strumentazioni includono anche sistemi di registrazione della voce su microcassetta o microdisk della durata di 60 o 120 minuti, così come la possibilità di effettuare un diario con annotazione di specifici comportamenti che viene memorizzato o di usufruire di inputs temporizzati in riferimento all’esecuzione di determinati monitoraggi.

All’interno di questo approccio il monitoraggio psicofisiologico deve essere accompagnato dalla registrazione delle reazioni psicologiche e dei cambiamenti che si innescano sul piano del comportamento. Sotto questo profilo l’applicazione della metodica del field study, indubbiamente, si presenta come un approccio integrato, che tende ad incrementare la consapevolezza e la conoscenza nel soggetto delle reazioni psicologiche, psicofisiologiche e comportamentali che scattano nell’individuo in determinate situazioni stimolo.

L’apparecchiatura che viene messa a disposizione del paziente, infatti, comprende un sistema multicanale per la registrazione della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, dell’attività elettrodermica con registrazione simultanea a viva voce dei commenti fatti dal soggetto in rapporto agli eventi esperiti nel setting di vita reale ed ai comportamenti emessi, in modo da diventarne sempre più consapevole.

Esistono, naturalmente, dei vantaggi e dei limiti sia nell’approccio perfezionato all’interno della laboratory psychophysiology che della field psychophysiology.

I benefici  legati ad un intervento condotto in laboratorio sono rappresentati dalla precisione di testare l’ipotesi formulata, dalla possibilità di isolare lo stimolo, dalla manipolazione delle variabili indipendenti, dal rigoroso controllo di variabili estranee e misurazione dell’errore, dall’assegnazione random dei soggetti presi in trattamento. Dall’altra parte i vantaggi connessi alla metodica di field psychophysiology sono rappresentati dalla validità ecologica dei risultati ottenuti; dal programma terapeutico adottato che studia direttamente il comportamento del soggetto nell’ambiente di vita reale, dall’osservazione di eventuali situazioni stimolo particolarmente problematiche, e dal fatto che i risultati che si ottengono tendono immediatamente a convalidare il trattamento che può essere direttamente applicato.

I limiti che un trattamento condotto in laboratorio presenta sono legati all’approccio riduzionista, all’artificiosità del setting rispetto alla condizione di vita reale del soggetto, per cui è piuttosto opinabile la generalizzazione dei risultati, e alla condizione per cui il metodo è viziato dagli artefatti. Indubbiamente un esperimento condotto sul campo non presenta difficoltà di questo tipo, perchè il soggetto viene studiato in quelle che sono le situazioni di vita abituali, là dove probabilmente tende a sviluppare reazioni cognitive e comportamentali problematiche senza averne adeguata coscienza. I limiti, invece, di quest’ultimo approccio sono rappresentati dalla complessità dell’addestramento che bisogna fornire al paziente, il quale deve presentare una compliance adeguata per potere essere incluso in questo tipo di trattamento, dalla relativa minore precisione dei monitoraggi effettuati e dalla difficoltà a controllare variabili dipendenti e indipendenti o dalla difficoltà di controllare artefatti metodo-dipendenti.

Generalmente un criterio, che viene seguito per valutare la reale affidabilità dei risultati rilevati in una osservazione condotta con la metodica del field study, è il confronto che si opera tra i risultati raccolti in field e quelli registrati in laboratorio.

L’approccio dei field study può essere limitato anche solo all’osservazione di comportamenti e aspetti psicologici oppure essere integrato con monitoraggi psicofisiologici, in particolari patologie psicosomatiche come le cardiopatie coronariche, l’infarto, l’ipertensione, in cui la registrazione e l’osservazione diretta da parte del paziente dell’oscillazione dei valori basali di pressione arteriosa e di frequenza cardiaca lo aiuta a riceve un input diretto della necessità di correggere immediatamente attraverso l’applicazione delle tecniche apprese la disfunzione in atto.

L’osservazione nella vita reale permette al soggetto di individuare più facilmente le situazioni critiche e difficilmente gestibili sul piano delle conseguenze somatiche e, quindi, di operare più efficacemente la prevenzione di un certo tipo di risposte.

Le emozioni sono parte integrante della vita dell’individuo e rivestono un ruolo significativo ed estremamente importante per le ripercussioni sul sistema cardiovascolare. E’ oramai accertato che emozioni significative per il soggetto inducono modificazioni a livello elettrocardiografico con manifestazione di aritmia cardiaca ed di episodi ischemici.

L’ischemia del miocardio si produce quando la richiesta di ossigeno da parte del muscolo cardiaco aumenta per un certo periodo di tempo. Nella maggior parte dei casi si osserva in pazienti che sviluppano stenosi delle coronarie, in seguito a processi di aterosclerosi. Quando la disponibilità di ossigeno aumenta la richiesta diminuisce di nuovo: questo, ad esempio, si verifica nel caso in cui viene bloccata un’attività fisica intensa, che aveva indotto il depauperamento di ossigeno.

E’ stato osservato, che un muscolo cardiaco che è in stato di sofferenza a causa di ischemia, mostra dei cambiamenti nella sua fisiologia proprio in seguito all’episodio ischemico. Disturbi nella fase di rilassamento del muscolo cardiaco sono seguiti da cambiamenti della contrattilità, accompagnati da segni indiretti di ischemia, dovuti all’aumento della pressione capillare polmonare: ciò viene accompagnato da tipiche modifiche elettrocardiografiche e da possibile dolore da angina pectoris. Gli studi in field, in questi casi, permettono di acquisire dati ulteriori per una maggiore definizione della diagnosi già in una fase precoce. Ad esempio, è molto più facile definire una diagnosi di ischemia in presenza di chiari markers di ischemia come nel caso della depressione del tratto ST nel tracciato elettrocardiografico sotto sforzo fisico; è, invece, molto più difficile porre diagnosi nel paziente in cui non si determina dolore durante l’esercizio fisico, questo si verifica in alcune forme di ischemia silente del miocardio.

Nell’ischemia le alterazioni elettrocardiografiche comprendono una depressione del tratto ST di 0.1 mV o più, una riduzione del punto J di 0.1 mV e una configurazione orizzontale del tratto ST. In base alle osservazioni condotte dall’American Heart Association, l’ischemia abitualmente può essere presunta quando il segmento ST presenta una depressione di 0.1 mV o più e l’episodio ha avuto una durata di un minuto ed è stato separato da eventuali episodi precedenti o successivi sempre da un lasso di tempo della durata di un minuto.

Atri studi hanno valutato la presenza di stati di ischemia transitori anche in soggetti affetti da ipertensione arteriosa. L’interesse per questo tipo di studi è stato soprattutto rinforzato dai casi di ischemia silente, in cui i pazienti sottoposti al trattamento del monitoring assessment possono essere avvertiti da ciò che sta avvenendo a livello cardiaco da un segnale sonoro. Naturalmente è importante preparare psicologicamente e sul piano della competenza comportamentale questi pazienti al fine di gestire la condizione in atto con l’ausilio del farmaco (nitroglicerina a breve termine), di tecniche di autocontrollo e regolazione dell’attività in corso, senza cadere in atteggiamenti di panico.

Molti studi, oggi, tendono a confermare che, in genere, questi episodi sono preceduti da eventi psicofisici particolarmente stressanti. Gli studi in field, in questi casi, rivelano che l’evento stressante ricorre nella vita del paziente e tende a provocare incremento della frequenza cardiaca senza che si palesino fenomeni di ischemia, ma ciò può essere utilizzato per incrementare la consapevolezza del paziente e migliorare le capacità di prevenire l’evoluzione verso episodi più gravi.

La metodologia dell’ambulatory assessment appare anche utile nel rilevamento di stati transitori di aumento della pressione arteriosa con incremento della frequenza cardiaca. Questi monitoraggi psicofisiologici vengono effettuati con l’ausilio di apparecchiature compatte-computerizzate e multicanali che registrano il profilo psicofisiologico relativo all’attività cardiaca con concomitante attenta definizione del setting, localizzazione, postura, attività e situazione sociale.

Anche in questi casi l’identificazione delle condizioni ambientali critiche, che inducono l’aumento della pressione arteriosa, degli eventi stressanti e degli stati emozionali che slatentizzano una certa vulnerabilità individuale è enormemente utile ai fini del controllo della situazione clinica. L’associazione di trattamenti riabilitativi finalizzati al miglioramento della qualità di vita del soggetto si integra perfettamente, dal punto di vista dell’efficacia complessiva, con il trattamento in field study.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO IV

 

ASSESSMENT MULTIMODALE E TERAPIA COGNITIVA

Un disegno sperimentale per il trattamento di una patologia cardiologica psicosomatica: l’ipertensione arteriosa essenziale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Scopo del progetto di ricerca, che ho elaborato in questa tesi, è stato quello di effettuare uno studio sulle possibili applicazioni dell’indagine psicofisiologica, sviluppata in un contesto di laboratory psychophysiology e field psychophysiology, e di un trattamento riabilitativo cognitivo-comportamentale volto a migliorare la qualità di vita del soggetto, in Cardiologia Psicosomatica.

La scelta della patologia, oggetto di studio, è avvenuta in virtù del peso rilevante che le affezioni dell’apparato cardiocircolatorio rivestono, da un punto di vista epidemiologico (rappresentano la prima causa di morte nell’età adulta nei Paesi industrializzati), clinico e della disabilità nella Società.

In patologie come le coronaropatie, l’infarto del miocardio, la morte cardiaca improvvisa, l’ipertensione arteriosa essenziale, gli studi di Medicina Psicosomatica hanno sottolineato come lo stress possa costituire un co-fattore di rischio significativo che si affianca e si sovrappone ai fattori di rischio epidemiologico noti come dieta, fumo, familiarità, scarso esercizio fisico (Pancheri, 1989).

Studi clinici controllati hanno dimostrato come i fenomeni di coronaropatia e gli episodi di infarto miocardico acuto siano frequentemente preceduti da accumulo di eventi stressanti nella vita lavorativa ed affettiva.

Fattori stressanti, in ambito lavorativo, sono risultati associati anche a maggiore rischio di complicanze nel decorso dell’infarto miocardico acuto.

Studi epidemiologici hanno rilevato che, nei sei mesi successivi alla morte del coniuge, il sopravvissuto ha un rischio di morte, per cause cardiovascolari, superiore fino al 67% della frequenza attesa per soggetti della stessa età e sesso (Bellaterra & Matteoli, 1984).

E’ stato rilevato che in molti casi un ruolo importante è rivestito non solo dalla presenza di eventi stressanti, ma anche dalla personalità e soprattutto dall’interazione eventi-personalità.

Friedman e Rosenman (1969) hanno osservato nei pazienti cardiologici due differenti patterns comportamentali in relazione agli eventi stressanti della vita quotidiana. Hanno descritto un pattern di personalità di tipo A, caratterizzato dalla presenza di elevata tensione, bisogno di controllo sull’ambiente, aggressività repressa, elevata competitività, impazienza, ipervigilanza, senso di urgenza del tempo, elevato coinvolgimento lavorativo, incapacità a rilassarsi, irritabilità, distinguendolo da un pattern di tipo B, in cui i soggetti si presentano più rilassati e riflessivi pur perseguendo l’obiettivo di progredire nella vita e nella carriera lavorativa.

Studi retrospettivi e prospettivi hanno dimostrato un aumento del rischio di cardiopatia ischemica del doppio nei soggetti  con pattern di tipo A rispetto ai soggetti con pattern di tipo B. I pazienti di tipo A non riescono ad evitare lo stress e vanno incontro a un rischio maggiore di helplessness, perchè vivono la perdita di controllo in modo eccessivamente minaccioso e perturbante (Falger, 1981).

Anomalie biochimiche e fisiologiche sono state riscontrate nei soggetti con pattern di tipo A rispetto a gruppi di controllo, tra cui l’aumentata secrezione di ACTH e catecolamine, elevata aggregabilità piastrinica, maggiori livelli di trigliceridi e colesterolo, maggiore frequenza di alterazioni elettrocardiografiche in condizioni di stress.

Per quanto riguarda l’ipertensione arteriosa essenziale, vari studi hanno rilevato come condizioni di stress possano rivestire un ruolo significativo quali co-fattori di rischio che possono innescare o aggravare tale patologia (Biondi & Reda, 1984). L’esposizione a stimoli emozionali stressanti in condizione acuta (situazioni sperimentali di conflitto, visione di immagini) si accompagna a transitorie, ma significative elevazioni della pressione arteriosa sia sistolica che diastolica. Studi clinici controllati hanno dimostrato come situazioni di stress cronico di lavoro (controllori del traffico aereo, lavoro in ambiente industriale con elevata rumorosità, ecc..) e accumulo di eventi esistenziali stressanti negativi si associno a livelli pressori significativamente più elevati rispetto a soggetti di controllo omogenei. Si ritiene che siano le condizioni di stress emozionale cronico a costituire un fattore di rischio per lo sviluppo dell’ipertensione, accanto a particolari tratti di personalità. Le personalità a maggiore rischio sarebbero quelle caratterizzate dalla tendenza a sopprimere le reazioni aggressive ed ostili verso l’ambiente e da una ridotta capacità di esprimere le proprie emozioni sul piano del comportamento. Dal punto di vista fisiopatologico i quadri ipertensivi implicati sarebbero soprattutto quelli caratterizzati da ipereattività adrenergica, con elevata renina plasmatica. Nel corso del 1999 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato le nuove linee guida per il trattamento dell’ipertensione arteriosa. Basandosi sulle conoscenze emerse negli ultimi anni, hanno introdotto novità interessanti. Infatti, è corretto considerare normale un soggetto la cui pressione non supera i 130/85 mmHg, ma si sottolinea che sono preferibili valori più bassi. E’ stato introdotto il concetto di pressione normale alta per i valori che oscillano tra 130 e 139 per la pressione arteriosa sistolica e 85 e 89 per la pressione arteriosa diastolica. Valori pari o superiori a 140 per la sistolica e 90 per la diastolica permettono di porre diagnosi di ipertensione arteriosa. Le nuove linee guida sottolineano l’importanza, oltre che di una corretta terapia farmacologica, del miglioramento della qualità di vita del soggetto, affinchè impari a tenere sotto controllo i fattori di rischio cardiovascolare, come ipercolesterolemia, mancanza di attività fisica, ritmi eccessivamente stressanti, fumo, peso corporeo eccedente, alcool, eccessivo consumo di sale.

Nelle nuove linee guida non si parla più di ipertensione del paziente anziano o di ipertensione sistolica isolata come di entità separate. Ciò perchè numerosi studi hanno dimostrato come la terapia dell’iperteso anziano e dei pazienti con ipertensione sistolica produce una riduzione del rischio cardiovascolare almeno equivalente a quella osservabile con il trattamento dell’ipertensione sisto-diastolica nei soggetti di mezza età. L’obiettivo fondamentale della terapia è la massima riduzione possibile del rischio cardiovascolare: il medico dovrà preoccuparsi di curare non solo l’ipertensione, ma anche il diabete e l’ipercolesterolemia e di convincere i pazienti che presentano contemporaneamente più fattori di rischio, la terapia antipertensiva deve essere eseguita in maniera particolarmente assidua ed aggressiva ed i valori pressori ridotti il più possibile.

Le linee guida ribadiscono che il medico deve cercare di portare i pazienti ad una pressione arteriosa sistolica inferiore a 130 mmHg ed una pressione arteriosa diastolica inferiore ad 85 mmHg nei giovani, nei soggetti di media età o in quelli affetti da diabete. Nell’anziano l’obiettivo è ottenere una stabilizzazione della pressione sotto i 140/90 mmHg (Costa, 1999).

 

 

METODO

 

DISEGNO

Obiettivo del disegno sperimentale è stato studiare parallelamente due campioni di pazienti, seguiti separatamente secondo la metodologia della field psychophyiology, che ha aggiunto al normale protocollo terapeutico messo a punto la possibilità di utilizzare delle apparecchiature compatte sia per il monitoraggio di alcuni parametri psicofisiologici che per la effettuazione di biofeedback in un setting di vita reale, e della laboratory psychophysiology, entrambi sottoposti a trattamento riabilitativo cognitivo-comportamentale, e confrontarne i risultati con un campione di soggetti affetti da ipertensione arteriosa, ma non sottoposti ad alcun trattamento riabilitativo e ricontrollati dopo tre mesi, durante i quali avevano effettuato solo terapia farmacologica.

E’ stata instaurata una collaborazione con una unità di cardiologia, che ha preso in osservazione i soggetti ipertesi di tutti i gruppi per porre diagnosi sistematicamente all’inizio, T0, ed alla fine del trattamento, T6. E’ stato concordato, inoltre, di effettuare sistematicamente a tutti i pazienti seguiti, nei due gruppi della field psychophysiology e della laboratory psychophysiology, all’inizio ed alla fine del trattamento, elettrocardiogramma, esami ematochimici, Holter pressorio e tipizzazione della ipertensione secondo i criteri stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Sulla base di tutti gli esami, infatti, è stato necessario accertare che si trattasse di ipertensione arteriosa primitiva o essenziale. In base a quanto stabilito dall’O.M.S. per porre diagnosi di ipertensione arteriosa è necessario effettuare tre misurazioni della pressione arteriosa sistolica e diastolica, in entrambe le braccia, secondo i metodi classici, con il paziente seduto e a distanza di quindici minuti l’una dall’altra. Questa tipizzazione, così  come  gli  esami ematochimici, sono stati mantenuti anche per il

 

gruppo dei soggetti ipertesi di controllo.

Le due fasi della ricerca sono state così articolate nelle seguenti topiche:

 

REALIZZAZIONE DI PROFILI DI STRESS IN LABORATORIO E TEST DI CAMPIONI             CARDIOLOGICI

 

            REALIZZAZIONE DI HARDWARE, SOFTWARE E SVILUPPO DI PROCEDURE PER    “FIELD PSYCHOPHYSIOLOGY MONITORING “IN PAZIENTI CARDIOLOGICI

 

Presso il laboratorio di Psicofisiologia dell’Istituto di Clinica Psichiatrica della Università degli Studi di Catania si è proceduto alla realizzazione di profili di stress con il monitoraggio simultaneo di tre parametri psicofisiologici: electrodermal activity, pulse trasmission time e heart rate.

Lo sviluppo delle metodologie in rapporto al “field psychophysiology monitoring” ha compreso una prima fase nel corso della quale si è proceduto alla realizzazione dell’hardware e del software appropriato, secondo le caratteristiche precedentemente descritte, e la definizione delle procedure per il “monitoring real-life responses” in pazienti cardiologici ipertesi. Si è proceduto alla stesura di schede di autosservazione per il paziente (APPENDICE 3), che ha dovuto monitorare il parametro psicofisiologico attraverso il feedback dato dall’uso di una strumentazione portatile e contemporaneamente registrare le alterazioni sul piano del comportamento, esplicitare le emozioni ed individuare le disfunzioni cognitive che si accompagnano a determinati eventi, oltre che imparare a riconoscere sintomi evento-correlati.

Obiettivo dell’applicazione di queste nuove metodologie è stato lo studio del rapporto che passa tra stressor e disfunzione cardiologica, in una condizione di procedure standardizzate presso i laboratori di Psicofisiologia e attraverso l’esplorazione di un campo di studio nuovo, i field studies, nell’ambito della Psicofisiologia, di cui si vuole valutare la reale efficacia sul piano tecnico e terapeutico.

La ricerca ha compreso accanto allo studio dei patterns psicofisiologici disfunzionali, anche una fase di terapia del paziente, secondo un intervento di tipo cognitivo-comportamentale, attraverso la utilizzazione del biofeedback, aiutandolo, in tal modo, ad incrementare le sue capacità di coping innanzi a stimoli stressanti della vita quotidiana.

La patologia cardiovascolare selezionata per lo sviluppo di questo progetto di ricerca, sulla base dei dati di letteratura (Fahrenberg & Myrtek, 1996), è stata essenzialmente l’ipertensione arteriosa primitiva, associata in qualche caso a disturbi del ritmo (aritmia cardiaca) e della conduzione del cuore (blocco di branca).

Ricordiamo che le finalità di questo progetto di ricerca sono state rappresentate da:

 

            Valutazione del ruolo dell’approccio cognitivista bio-psico-sociale e dell’assessment      multimodale psicometrico-psicofisiologico nel trattamento di una patologia         cardiologica psicosomatica come l’ipertensione arteriosa primitiva.

 

            Indagine sulla eventuale validità, affidabilità e utilità delle tecniche di field        psychophysiology.

 

Il Protocollo di ricerca ha compreso le seguenti fasi:

 

            assessment multimodale psicometrico-psicofisiologico, secondo le modalità     standardizzate della laboratory psychophysiology, in un tempo di Baseline e nei            tempi T1, dopo 2 settimane, T2, dopo 4 settimane, T3, dopo 6 settimane, T4, dopo 8   settimane, T5, dopo 10 settimane, T6, dopo 12 settimane.

 

            intervento cognitivo- comportamentale strutturato

 

Tale intervento ha compreso 1 mese di trattamento in laboratorio, per il gruppo field, al fine di realizzare un addestramento all’applicazione delle tecniche di rilassamento con gli strumenti della field psychophysiology, a cui ha fatto seguito un periodo di due mesi, durante il quale il paziente ha effettuato un “monitoring real life responses” nell’ambiente di vita reale, venendo sottoposto in laboratorio solo all’assessment psicometrico-psicofisiologico. Sono state, invece, effettuate sedute settimanali durante tutto il tempo di trattamento per i soggetti del gruppo laboratory.

 

            follow-up a trattamento finito dopo

                                                                                  1 mese

                                                                                  2 mesi

                                                                                  4 mesi

                                                                                  6 mesi

 

 

SOGGETTI

I campioni di soggetti seguiti nel corso di questa ricerca sono stati due. I pazienti sono stati inseriti in essi secondo il seguente criterio di selezione: venivano contattati in reparto e assegnati ai gruppi solo sulla base della loro compliance e disponibilità. Il primo gruppo è stato costituito da 12 soggetti, per i quali è stata posta diagnosi di ipertensione arteriosa essenziale, dall’unità di cardiologia in base ai criteri sopra indicati. Di questi 6 erano maschi e 6 femmine, la cui età media è 38.17 anni, D.S. 13.04. Questo campione è stato splittato in due sottogruppi, costituiti da 6 soggetti ciascuno e seguiti in trattamento separatamente, mettendo a confronto le due metodologie della field psychophysiology e della laboratory psychophysiology sul piano della utilità terapeutica. Il gruppo field psychophysiology ha compreso 3 maschi e 3 femmine, la cui età media è stata di 39.00 anni, D.S. 7.97; il gruppo laboratory psychophysiology ha compreso 3 femmine e 3 maschi, la cui età media è risultata essere di 37.33 anni, D.S. 17.58. I due gruppi hanno presentato caratteristiche di sufficiente omogeneità riferita alla distribuzione dell’età, del sesso e della scolarità (3 lauree e 3 diplomi nel gruppo field psychophysiology e 2 lauree, 3 diplomi e 1 scuola media inferiore nel gruppo laboratory psychophysiology). L’appartenenza ai due gruppi è stata decisa dallo sperimentatore in seguito alla valutazione delle capacità di compliance e della motivazione al trattamento che i pazienti hanno mostrato; infatti, risultava indispensabile una buona capacità di collaborazione per aderire al gruppo di field psychophysiology ed apprendere l’autogestione delle apparecchiature, ma soprattutto la costanza nella esecuzione del trattamento nell’ambiente di vita reale.

Questo campione così suddiviso nei due sottogruppi è stato messo a confronto, per verificare l’efficacia del trattamento riabilitativo associato alla terapia farmacologica, con un gruppo di soggetti, per i quali è stata posta diagnosi di ipertensione arteriosa primitiva secondo i medesimi criteri seguiti per l’altro campione di soggetti ipertesi, ma differenziandolo, perchè ci si è limitati a effettuare una tipizzazione dell’ipertensione arteriosa e un’analisi dei valori ematochimici in un tempo, T0, e T6, dopo 12 settimane, durante le quali avevano seguito solo la terapia farmacologica prescritta dai cardiologi. Questo gruppo ha compreso 12 soggetti, 7 femmine e 5 maschi, la cui età media è risultata essere di 46.50 anni, D.S. 9.35. In questo gruppo il livello di scolarità è stato complessivamente più basso (scuola media inferiore). La differenza dell’età media dei due campioni non è statisticamente significativa, per cui i due gruppi possono essere considerati piuttosto omogenei in riferimento al sesso ed all’età.

I pazienti hanno presentato le seguenti diagnosi differenziate. Il gruppo field psychophysiology comprendeva 4 soggetti con ipertensione arteriosa essenziale, 1 con ipertensione arteriosa essenziale associato a blocco di branca e 1 con ipertensione arteriosa essenziale ed aritmia cardiaca. Il gruppo laboratory psychophysiology ha compreso 5 soggetti affetti da ipertensione arteriosa essenziale e 1 con ipertensione arteriosa essenziale e blocco di branca. Il gruppo di controllo è stato costituito da 10 soggetti affetti da ipertensione arteriosa essenziale e 2 con ipertensione arteriosa essenziale e blocco di branca.

La lieve difformità del campione in riferimento alla diagnosi è stata accettata, considerando che fondamentalmente ogni soggetto si è confrontato con se stesso, a prescindere da evenduali co-morbidità, tra l’inizio e la fine del trattamento.

Un altro dato importante nella descrizione del campione è rappresentato dal peso dei soggetti che hanno fatto parte di questi campioni e delle variazioni che sono state registrate. Al baseline, T0, i 12 soggetti ipertesi che hanno fatto parte del gruppo che ha seguito il trattamento riabilitativo erano così distribuiti: il 58% presentava un peso adeguato all’altezza, il 42% ha presentato problemi di sovrappeso. Alla fine del trattamento, T6, solo il 17% dei soggetti in sovrappeso rispetto al campione totale ha fatto registrare una variazione di peso nel senso del decremento. Il restante 25% dei soggetti che presentavano eccedenza di peso non sono riusciti ad acquisire variazioni significative per quanto delle oscillazioni siano state registrate.

Per quanto riguarda, invece, il campione dei 12 soggetti ipertesi che hanno fatto da controllo ha presentato i seguenti dati: il 50% della popolazione del campione non ha presentato problemi di sovrappeso ed ha mantenuto quasi costante il peso tra il T0 ed il T6. L’altro 50%, invece, ha fatto registrare un’eccedenza di peso, obesità media, in riferimento alla quale non hanno fatto registrare alcun cambiamento positivo, nel senso della diminuzione del peso in un tempo di osservazione di tre mesi.

 

STIMOLI

Ogni strumentazione per il monitoraggio di parametri psicofisiologici e per biofeedback, sebbene caratterizzata da comandi e regolazioni, che sono peculiari del tipo di apparecchiatura in questione, a seconda della sofisticazione e del costo, deve comprendere i seguenti elementi fondamentali: un trasduttore o degli elettrodi, per acquisire i segnali biologici relativi al parametro che si vuole monitorare, una unità di amplificazione e processamento dei segnali, una unità di acquisizione dei dati e una serie di displays, oltre che di apposite interfacce per microcomputer che rendono possibile, con apposito software, l’acquisizione dei dati, la loro elaborazione ed archiviazione.

Il display è l’elemento critico di qualsiasi apparecchiatura per biofeedback, poichè costituisce il canale attraverso il quale la strumentazione comunica al paziente l’andamento dinamico del parametro da controllare. I displays possono essere visivi o acustici, per quanto concerne il canale sensoriale interessato, e analogici, binari o digitali, a seconda delle modalità utilizzate per trasferire al paziente l’informazione relativa all’andamento del parametro monitorato.

Il biofeedback, che abbiamo utilizzato in questo progetto sperimentale, in riferimento alla terapia delle patologie cardiologiche, rappresenta una delle più interessanti novità in ambito terapeutico degli ultimi anni. Consiste in una procedura sperimentale e clinica, che rende possibile la presentazione al paziente, con l’ausilio di adatte strumentazioni, di informazioni, relative all’andamento dinamico delle funzioni biologiche, dal cui organismo tali informazioni sono attinte (Fuller, 1977). L’obiettivo che si cerca di perseguire è quello di far apprendere all’uomo la possibilità di regolare e controllare funzioni biologiche che di norma non sono sottoposte a controllo volontario, perchè regolate automaticamente a livello sottocorticale, o che lo sono in misura relativa o che non lo sono a causa di una condizione morbosa.  

Il biofeedback può essere utilizzato in un contesto psicoterapico-riabilitativo come valido strumento di cambiamento al fine di perseguire una progressiva ristrutturazione nel modo di vivere e gestire la fenomenologia emotiva.

Gli aspetti relativi alla metodologia di rilevamento del segnale e di erogazione dei feedback al paziente costituiscono un elemento cruciale di qualsiasi tecnica di biofeedback. Affinchè una metodica di biofeedback risulti affidabile, è indispensabile, che il setting non risulti condizionato negativamente da problemi tecnici e metodologici. Il biofeedback della pressione arteriosa costituisce  una tecnica,  le cui indubbie potenzialità potrebbero essere condizionate   negativamente

da una serie di difficoltà tecniche, legate alle modalità di monitoraggio del parametro, che risultano abbastanza indaginose.

Laboratory Psychophysiology

L’impiego dell’assessment psicofisiologico finalizzato alla prevenzione delle malattie psicosomatiche ed alla pianificazione del trattamento è di grande utilità nella pratica clinica e terapeutica.

La rilevazione, infatti, di parametri psicofisiologici in condizioni di relax, di stimolazione sensoriale e di stress permette di evidenziare patterns di risposte anormali e di individuare gli organi o i sistemi particolarmente interessati. Tali risposte anormali si manifestano prima che si instauri una vera e propria affezione psicosomatica, consentendo di individuare i soggetti a rischio e di operare una prevenzione.

Nel caso in cui ci si trova di fronte a un paziente che ha già sviluppato una problematica clinica, una procedura di assessment psicofisiologico consente di studiare e caratterizzare meglio la situazione biologica dell’individuo, evidenziando quali sistemi biologici siano maggiormente disfunzionali.

L’assessment psicofisiologico, che abbiamo realizzato presso il laboratorio di Psicofisiologia è multimodale e complesso e attinge dati riferiti all’aspetto psicofisiologico, comportamentale e cognitivo. Tale approccio sistemico mette in evidenza come la valutazione delle risposte emotive si riferisce ad aree ben differenziate, le cui condizioni di stato possono essere non sintone.

La costruzione di una routine di assessment, tuttavia, consente di individuare tipologie relative a differenti modalità idiosincrasiche di organizzazione della conoscenza.

In ogni individuo la configurazione dei vari parametri, analizzati secondo l’approccio multimodale, può variare, conseguendo condizioni di equilibrio ed integrazioni che si modificano nel tempo ed in rapporto alla particolare situazione di vincolo della complessità.

In tal senso lo studio delle variabili psicofisiologiche rappresenta una delle possibili modalità di raccolta dei dati, da non estrapolare, bensì integrare con altri punti di vista, nell’ambito di un’ottica integrata e complessa dello studio del rapporto mente-corpo nell’uomo.

Naturalmente, i piani di ricerca e le indagini psicofisiologiche condotte presso i laboratori di Psicofisiologia, proprio per la loro complessità operativa ed affidabilità dei dati rilevati, richiedono la presenza di personale specializzato che abbia sviluppato una maturità scientifica nella conduzione  dell’esperimento psicofisiologico ed una specifica competenza nell’utilizzazione di strumentazioni sofisticate. Lo psicofisiologo necessariamente deve considerare problemi inerenti il rilevamento del segnale, l’ampiezza, la frequenza, oltre che la forma d’onda monitorata. La selezione, infatti, di strumentazioni affidabili pone problemi relativi alla sensibilità dell’input, al range di rilevamento del segnale mediante le apparecchiature, al grado di risoluzione richiesto per l’output, all’accuratezza globale del sistema ed, infine, all’affidabilità del sistema di rilevamento. Nella conduzione di un esperimento, presso un laboratorio, diventa importante considerare l’influenza di variabili come l’orario di esecuzione del test, la temperatura dell’ambiente di registrazione, la temperatura esterna, il tasso di umidità e la pressione barometrica.

La realizzazione di un assessment psicofisiologico rende possibile, non solo l’acquisizione di dati relativi al monitoraggio e, di conseguenza, al rilevamento di eventuali alterazioni e disfunzioni del pattern psicofisiologico, bensì, anche, lo studio della reattività del sistema nervoso centrale e le modificazioni periferiche indotte da stimoli. Questi studi vengono effettuati attraverso la realizzazione di profili di stress, che consistono nell’osservazione di più parametri contemporaneamente o singolarmente in condizioni di baseline per un tempo definito e, successivamente, di stressors cognitivi, sensoriali ed acustici. Le fasi di attivazione durante l’esecuzione di un profilo di stress si alternano a fasi di recovery. In tal modo, è possibile studiare la responsività centrale del soggetto innanzi ad uno stimolo esterno attraverso gli incrementi di arousal che si verificano. A ciò si associa lo studio delle modificazioni periferiche, mediate dal sistema nervoso vegetativo, attraverso il monitoraggio dei parametri della pulse trasmission time e dell’heart rate.

Field Psychophysiology

Negli ultimi anni, diversi autori (Fahrenberg & Myrtek, 1996) hanno cominciato a proporre un nuovo ed interessante approccio, per l’immediatezza terapeutica che presenta, per l’assessment comportamentale e psicofisiologico. Tale approccio, riferito ai field studies, è basato su un’osservazione naturalistica, perchè condotta nell’ambiente di vita del paziente, e su misurazioni effettuate nella vita quotidiana, le quali  presentano una elevata validità ecologica.

E’ stata sottolineata la notevole utilità, per il riscontro pratico, dell’applicazione delle tecniche di field psychophysiology, in un vasto range di campi diversi. Le differenze individuali, infatti, sul piano comportamentale e psicofisiologico, secondo questo nuovo orientamento, possono essere studiate nelle situazioni di vita reale, nelle quali i comportamenti rilevati possono essere investigati molto più efficacemente che nel setting artificiale del laboratorio.

Gli obiettivi essenziali dei field studies sono rappresentati dalla registrazione di dati significativi nel setting naturale del paziente, dalle misurazioni in tempo reale dei cambiamenti comportamentali e psicofisiologici, dalla diretta applicazione delle tecniche da parte del paziente con immediato riscontro sul piano terapeutico, dall’assessment interattivo in tempo reale con la possibilità di fornire istruzioni, dall’assessment simultaneo dei cambiamenti psicologici e psicofisiologici correlati ad eventi, dalla realizzazione di assessment multimodali in modo da ricevere informazioni su più livelli e dalla validità ecologica dei risultati, nonchè convenienza che tali tecniche presentano per la diretta applicazione che può essere effettuata dal paziente.

La utilizzazione di queste nuove tecniche richiede la disponibilità di strumentazioni piccole e compatte, computer assistite, a basso consumo energetico, elevata capacità di memoria, programmazione flessibile e dotate di modalità di registrazione di tipo digitale e di elaborazione dei dati.

Il monitoraggio effettuato secondo l’ ”ambulatory assessment” presenta un vantaggio terapeutico non indifferente, data la possibilità che viene offerta al paziente di autocontrollo e modifica delle disfunzionalità dei patterns psicofisiologici registrati, attraverso la modalità del “monitoring real-life responses”.

 

APPARECCHIATURA

La fase iniziale del lavoro ha compreso la risoluzione di problemi di tipo tecnico connessi al funzionamento delle strumentazioni in laboratorio, necessarie per la effettuazione dei profili di stress, nonchè l’approntamento di hardware e software per lo sviluppo della field psychophysiology e della laboratory psychophysiology, secondo le modalità presentate nel progetto sopra menzionato.

Tutte le registrazioni sono avvenute in laboratorio ad una temperatura costante di 27 °C ed un tasso di umidità del 50%.

Per la realizzazione delle registrazioni in laboratorio, sono state utilizzate le seguenti apparecchiature di monitoraggio psicofisiologico e biofeedback: un modulo Satem PT 401 S, S.C.L. System, per la registrazione dell’attività elettrodermica, un modulo Satem PT 601, Cardiopulse Module, per la registrazione della frequenza cardiaca, satellite di un modulo Satem PT 101 S, Myotron, ed un modulo Satem PT 611 S, Arterial Pressure System, per il monitoraggio non invasivo della pressione arteriosa e l’apprendimento del controllo volontario della stessa, attraverso il metodo del tempo di transito dell’onda sfigmica così come descritto da Steptoe et al (1976).

L’attività elettrodermica, attraverso il rilevamento della conduttanza cutanea, viene facilmente misurata con elettrodi cutanei, collegati al modulo SATEM PT 401 S, al cloruro di argento posti sulla superficie volare dell’indice e del dito medio della mano dominante.

Per quel che riguarda la frequenza cardiaca il modulo SATEM PT 601 è fornito di un elettrodo a fibre ottiche, che è stato posto sulla superficie volare del dito medio della mano non dominante di ogni soggetto, il quale è in grado di rilevare le variazioni del flusso sanguigno dovute all’intermittenza delle pulsazioni cardiache. Un elaboratore all’interno dell’apparecchiatura conta le fluttuazioni di corrente generate dal sensore a fibre ottiche, in un intervallo di tempo di 10 sec., e ne moltiplica il numero per 6, ottenendo così il numero dei battiti al minuto.Tutte le strumentazioni utilizzate per il monitoraggio dei diversi parametri psicofisiologici sono in  grado di erogare feedback visivi ed acustici facilmente interpretabili dal paziente, al fine di ottenerne il controllo volontario.

Al fine di visualizzare on-line, sullo schermo di un computer, i segnali registrati attraverso le apparecchiature contemporaneamente e, dopo, memorizzare i tracciati ottenuti in un unico grafico effettuando una sintesi degli 8 minuti di registrazione del profilo di stress, è stata realizzata una ”interfaccia”, in grado di collegare le strumentazioni al computer e un software appositamente programmato per la elaborazione dei dati da noi registrati. Nello stampato finale della sintesi della registrazione la elaborazione dei dati riferiti ad ogni singolo parametro permette di leggere il valore medio al minuto delle letture costantemente effettuate durante il tempo di registrazione.

Per lo sviluppo della field psychophysiology ci siamo serviti di apparecchi portatili della Psycotron Bioelectronics preposti alla registrazione del heart rate, con i quali i pazienti hanno potuto effettuare misurazioni quotidiane riferite alla frequenza cardiaca ed il biofeedback della medesima secondo l’addestramento effettuato in laboratorio. Lo strumento è fornito di un elettrodo, che, con un sensore a fibre ottiche, che va applicato al polpastrello dell’indice o del medio, è capace di rilevare il segnale periferico della pulsazione cardiaca.

Si è, anche, proceduto, con un tecnico, alla costruzione di apparecchi compatti per la misurazione della conduttanza cutanea. Lo strumento è fornito di un display digitale, sul quale effettuare la lettura del valore digitale della conduttanza cutanea, e di due elettrodi che vanno applicati sulla superficie dei polpastrelli, a livello della falange distale delle dita, indice e medio, della mano dominante come indicato dalla nomenclatura internazionale. Per effettuare la misurazione il paziente deve collegare lo strumento agli elettrodi. I cavi relativi si connettono allo strumento tramite due prese jack poste sui due lati dello strumento stesso. Accendendo lo strumento, che è alimentato da una batteria alcalina da 9 Volt, il paziente ha una immediata lettura del valore della conduttanza presente.

 

Valutazione del setting con particolare riferimento al tempo di transito e taratura del tempo di transito rispetto alla pressione arteriosa

Come dimostrato da Steptoe et al. (1976) il tempo di transito dell’onda sfigmica è inversamente proporzionale alla pressione arteriosa media, mentre la velocità del sangue ne è direttamente proporzionale. Questi parametri non sono generalizzabili, bensì caratteristici di ogni individuo e, quindi, occorre fare una taratura con metodi di misura classici per stabilire la relazione esistente tra pressione arteriosa e tempo di transito (Mc Grady et al., 1981; Weiss, 1977).

L’apparecchio da noi utilizzato, il PT 611 S della Satem, misura la pressione arteriosa col metodo del tempo di transito dell’onda sfigmica.

Gli impulsi di partenza e di arrivo dell’onda sfigmica sono prelevati, rispettivamente, in corrispondenza dell’onda R del segnale elettrocardiografico e in corrispondenza dell’arrivo della stessa pulsazione all’arteria radiale.

Abbiamo prelevato il segnale elettrocardiografico in periferia, braccio destro-braccio sinistro, mediante elettrodi da 14 mm di diametro. L’impulso dell’onda sfigmica sull’arteria radiale (fase sistolica) è stato prelevato con l’apposito sensore montato su una pinza di plastica.

Nel tempo di transito così ottenuto è compreso il tempo di ritardo intracardiaco, pre ejection period, tempo che intercorre tra l’emissione dell’onda R e l’effettiva uscita del sangue dal cuore. Questo tempo è di solito di 100 msec e rimane costante nella grande maggioranza dei casi.

Nello strumento da noi utilizzato è stato introdotto un ritardo variabile che compensa il tempo di propagazione intracardiaco, per cui è stato misurato solo l’effettivo tempo di transito dell’onda sfigmica dal momento in cui esce dal cuore al momento in cui arriva al polso.

Come già detto la misura del tempo di transito non è di tipo assoluto, per cui è stato necessario stabilire una relazione sperimentale con la pressione arteriosa.

Esiste, sulla base dei dati sperimentali presentati da Steptoe (1976), una correlazione tra tempo di transito e pressione arteriosa media; questa correlazione è di tipo lineare (coefficiente di correlazione 0.9), inversamente proporzionale e vale circa 10mSec per 10 mm di mercurio di variazione di pressione arteriosa media. La pressione arteriosa media è stata calcolata sommando alla minima, 1/3 del dislivello esistente tra pressione minima e massima.

Si è proceduto sistematicamente alla misurazione della pressione arteriosa sistolica e diastolica all’inizio ed alla fine della seduta (la misurazione è stata sempre effettuata con il metodo classico stetoscopio-bracciale-manometro) registrando i relativi tempi di transito. Dopo si è proceduto al calcolo del coefficiente di correlazione, trovando il valore sopra indicato (APPENDICE 1).

Questo tipo di taratura, una volta effettuata, è valida solo per il paziente in esame, per cui è stata sistematicamente riproposta in ogni seduta per singolo paziente.

Come nel caso che riportiamo, si è proceduto per singolo paziente al rilevamento della pressione arteriosa all’inizio ed alla fine della seduta, con uno scarto di tempo rispetto ai valori registrati del tempo di transito di 1 minuto all’inizio ed alla fine, rispettivamente. A questo punto si è proceduto al calcolo della pressione arteriosa media e del tempo di transito medio registrato durante tutta la seduta, quindi è stata divisa la pressione arteriosa media per il tempo di transito ed ottenuto il coefficiente di correlazione lineare, come può essere evinto dal Caso1 (APPENDICE 1).

 

PROCEDIMENTO

Il trattamento secondo le modalità della Laboratory psychophysiology è stato articolato nel modo seguente per i pazienti di entrambi i campioni.

Nel primo incontro si è proceduto alla compilazione del protocollo di ricerca per lo studio di soggetti affetti da patologie cardiologiche psicosomatiche con la raccolta dei dati anamnestici del paziente, la valutazione clinica delle condizioni psicologiche, attraverso la effettuazione di un esame psichico, la registrazione dei dati relativi agli esami di laboratorio e degli esami diagnostici previsti ed, infine, la effettuazione degli esami psicofisiologici e del profilo psicologico (APPENDICE 2).

Gli esami psicofisiologici sono consistiti nella realizzazione di un profilo di stress con il monitoraggio simultaneo dei seguenti parametri: electrodermal activity, pulse trasmission time e heart rate. Il profilo di stress, in laboratorio, viene realizzato per studiare l’andamento dell’attivazione emozionale del soggetto in seguito alla somministrazione di stimoli cognitivi, percettivo-motori, acustici, correlata alle capacità di recupero, che il soggetto è in grado di mettere in atto, quando riceve inputs potenzialmente stressanti dall’ambiente esterno.

L’attività biologica del soggetto è stata registrata in fasi successive secondo la seguente alternanza:

 

                       1 minuto: Baseline

                       2 minuto: Attivazione Cognitiva (sottrazione seriata del sette)

                       3 minuto: Recovery

                       4 minuto: Stimolazione Percettiva (presentazione figura complessa di Rey)

                       5 minuto: Stimolazione Percettiva (presentazione figura complessa di Rey)

                       6 minuto: Recovery

                       7 minuto: Stressor acustico

                       8 minuto: Recovery

 

L’assessment psicometrico-psicofisiologico ha compreso un’indagine approfondita delle caratteristiche psicologiche e dei tratti di personalità dominanti, attraverso la realizzazione di un profilo psicologico. Al paziente sono stati somministrati, con cadenza mensile per i soggetti del campione in trattamento e solo in T0 e T6 per i pazienti ipertesi del gruppo di controllo, tests standardizzati che valutano le caratteristiche della struttura di personalità, i livelli di ansia di tratto, l’eventuale presenza di una condizione depressiva, e tratti di aggressività ed ostilità, presenti nella struttura personologica del soggetto. Tale profilo è stato realizzato attraverso la somministrazione dei seguenti tests: Middlesex Hospital Questionnaire (Crown & Crisp, 1966), Stait and Trait Anxiety Inventory nella forma X-1 e X-2 (Spielberg, Gorsuch, Lushene, 1967), la Scala di Zung  per la Depressione (Zung, 1963), la Defense Mechanisms Inventory (Fioriti, Fiumara, Gentili, 1993)

ed il Questionario I-R (Caprara, Barbarelli, Pastorelli, Perugini, 1991).

Abbiamo ritenuto importante, in base ai precedenti studi di Friedman & Rosenman (1969), indagare la correlazione esistente tra caratteristiche della personalità e prognosi della patologia cardiologica e valutare, di conseguenza, la possibile importanza che un intervento strutturato può avere nel condizionare l’evoluzione della patologia del sistema cardiovascolare.

 

 L’intervento cognitivo-comportamentale previsto per il gruppo di soggetti seguiti secondo le modalità della field psychophysiology è stato articolato nel modo seguente:

 

            A. Valutazione preliminare.

                       -Somministrazione del Protocollo di ricerca per lo studio di soggetti                                 affetti da patologie cardiologiche psicosomatiche (Appendice 2)

 

            B. Stipulazione del Contratto Terapeutico.

                       -Contratto terapeutico e pianificazione della strategia di intervento.

                       -Definizione della frequenza e della durata dei singoli colloqui e dell’intero                                  trattamento.

 

Le 4 sedute sono state strutturate nel modo seguente, avendo consegnato al soggetto, previa spiegazione, l’Appendice 3:

 

            C. Primo Colloquio.

                       -Individuare il problema più urgente ed accessibile.

                       -Spiegazione delle strategie cognitivo-comportamentali con particolare accento sul

                       significato dei compiti comportamentali e dei compiti a casa.

                       -Biofeedback in presenza del terapeuta.

                       -Scheda per il Programma settimanale delle attività.

                       -Scheda di registrazione dei pensieri disfunzionali.

                       -Scheda A-B-C dell’evento.

 

            D. Secondo colloquio.

                       -Indagare l’effetto del primo colloquio.

                       -Esaminare la scheda di registrazione del Programma di attività settimanali.

                       -Discutere i problemi presentatisi nel tempo trascorso.

                       -Esaminare le schede dei pensieri disfunzionali e dell’evento.

                       -Biofeedback.

 

            E. Terzo colloquio.

                       -Esaminare i compiti assegnati.

                       -Discussione dei problemi incontrati.

                       -Biofeedback in presenza del terapeuta.

                       -Addestramento all’uso delle apparecchiature di field psychophysiology.

                       -Assegnazione delle schede di autovalutazione e monitoraggio in riferimento alla                                                                                                                                                                 field psychophysiology.

 

            F. Quarto colloquio.

                       Esaminare l’andamento della terapia, attraverso l’assegnazione dei compiti.

                       Biofeedback con apparecchiature di field psychophysiology.

                       Presentazione del protocollo da seguire e definizione dell’appuntamento per                              controllo.

I pazienti del gruppo laboratory psychophysiology sono stati seguiti con intervento cognitivo-comportamentale in parallelo, con assegnazione di compiti riferiti all’autosservazione ed applicazione di tecniche di biofeedback con cadenza settimanale in presenza del terapeuta, ma non si sono avvalsi dell’uso di strumenti di field psychophysiology.

I pazienti che sono stati inseriti nel gruppo che ha realizzato l’applicazione della metodologia della field psychophysiology hanno seguito la seguente strutturazione delle attività della giornata:

 

            Monitoraggio quotidiano, mattina e pomeriggio, dei parametri della frequenza cardiaca e dell’attività elettrodermica. Al paziente sono state fornite delle schede, in cui annotare i valori digitali delle letture effettuate, dopo aver posizionato gli elettrodi, sui displays delle strumentazioni (APPENDICE 3).

 

            Biofeedback della frequenza cardiaca, da effettuare 1 volta al dì per un tempo di 10 minuti.

 

            Compilazione delle seguenti schede:

 

                       Scheda di monitoraggio della frequenza cardiaca.

                       Scheda di monitoraggio dell’attività elettrodermica.

                       S.T.A.I. X-1.

                       Scheda di autovalutazione della componente emotiva.

                       Questionario di autovalutazione semeiologica di sintomi riferiti all’apparato                               cardiocircolatorio.

                       Scheda dell’evento A-B-C.

                       Scheda dei pensieri disfunzionali.

                       Scheda del Programma delle attività settimanali.

Il Setting

Durante le registrazioni effettuate presso il laboratorio il paziente è stato posto in una poltrona con braccioli di fronte alle strumentazioni necessarie per il monitoraggio dei vari parametri psicofisiologici e ad un distanza di 1 metro.

Prima di fissare gli elettrodi per il rilevamento dei diversi parametri psicofisiologici si è proceduto sistematicamente all’applicazione del manicotto di Riva - Rocci sul braccio destro (la scelta del braccio è stata dettata da limitazioni ambientali, ma è stata sempre mantenuta uguale) per il rilevamento della pressione arteriosa all’inizio ed alla fine della seduta con uno scarto di tempo di 1 minuto rispetto ai tempi di registrazione.

Gli avambracci del paziente venivano poggiati sui braccioli della poltrona con la superficie ventrale rivolta verso l’alto e la parte distale dell’avambraccio leggermente ruotata in senso antiorario. L’avambraccio e la mano venivano poggiati in maniera comoda, con la mano allineata all’asse del braccio, lasciando libera la zona del polso.

A questo punto si cominciavano a fissare con dischi bioadesivi gli elettrodi dell’Arterial Pressure System, 3 elettrodi a disco da 14 mm di diametro, per il rilevamento del segnale dell’onda R. Il segnale elettrocardiografico in periferia veniva prelevato dalla derivazione “a”, braccio sinistro-braccio destro. L’elettrodo di riferimento è stato posizionato sul braccio sinistro ad una distanza non superiore ai 10 cm dall’elettrodo attivo. L’altro elettrodo veniva applicato sul braccio destro. Poichè il segnale elettrocardiografico in periferia può essere diverso da un soggetto ad un altro a causa delle rotazioni dell’asse elettrico del cuore, non è possibile descrivere esattamente un posizionamento unico per tutti i soggetti in esame, bensì il fissaggio degli elettrodi è stato personalizzato sulla base della validità del segnale dell’onda R, che veniva accettato e non reiettato dall’apparecchiatura. Sull’elettrodo è stata applicata della pasta conduttrice e, dopo veniva fissato alla pelle, previamente pulita con alcool, ed in una zona possibilmente priva di peli. Si è proceduto al controllo dell’ampiezza dell’onda R, secondo i criteri di taratura della strumentazione.

Si passava, a questo punto, alla sistemazione del sensore radiale. Per posizionarlo più facilmente sull’arteria il polso veniva individuato con le dita e si contrassegnava con un cerchio la zona dove era più forte. La punta del sensore veniva posizionata sull’arteria radiale del polso sinistro, poichè la lunghezza del percorso tra cuore e polso sinistro è più facilmente determinabile di quella relativa al polso destro. Si controllava l’ampiezza del picco dell’onda sfigmica, accertando che l’ampiezza del segnale fosse abbastanza costante. In generale non sono state accettate variazioni superiori al 10%, per garantire un più continuo rilevamento del tempo di transito.

Le misurazioni di ampiezza dei segnali di trigger, “RW” e onda radiale, sono stati effettuati con il paziente in posizione rilassata e con gli arti, provvisti dei sistemi di rilevamento, fermi.

L’apparecchiatura possiede un sistema di “rigetto” degli artefatti automatico, per cui sono stati presi in considerazione solo i segnali compresi entro i limiti prefissati di tempo e di ampiezza. Il rilevamento, infatti, del tempo di transito viene effettuato solamente quando tutti e due i punti di trigger rientrano nei limiti prefissati; l’apparecchio esplicita l’ultimo valore “regolare” che è stato misurato.

Si è proceduto all’applicazione dei due elettrodi del modulo PT 401 S per la registrazione dell’attività elettrodermica a livello della falange distale dell’indice e del medio della mano dominante.

Si applicava il sensore a fibre ottiche del Cardiopulse Module a livello della superficie volare della falange distale dell’indice o del medio della mano non dominante, raccomandando di non fare movimenti bruschi con la mano durante la seduta, una volta intercettato un segnale di ampiezza adeguata. Veniva verificato che la strumentazione emettesse un segnale luminoso per ogni battito del cuore. Questi sistemi foto-ottici registrano le singole onde sfigmiche sistoliche, fornendo un segnale proporzionale alla frequenza cardiaca attuale (feedback proporzionale).

I segnali rilevati dalle apparecchiature fornivano direttamente al paziente feedback visivo ed acustico, per quanto concerne la frequenza cardiaca, ed, acustico, in riferimento al tempo di transito. Contemporaneamente i segnali monitorati comparivano on-line sullo schermo del computer sottoforma di punti luminosi che spostandosi sul tracciato, della durata di 1 minuto di registrazione, costruivano tre tracce, in rapporto ai parametri monitorati, riscrivendo sul risultato raggiunto nel minuto precedente e, quindi, permettendo al paziente di controllare i tre parametri contemporaneamente.

Nella fase di addestramento iniziale il paziente veniva istruito sulla dinamica del biofeedback ed informato del controllo indiretto che poteva realizzare sulla pressione arteriosa, attraverso l’innalzamento del valore del tempo di transito.

 

 

RISULTATI

 

Tutti i dati ottenuti dall’applicazione del disegno sperimentale descritto sono stati sottoposti a valutazione di tipo statistico. Sono stati presi in considerazione i dati registrati durante il profilo di stress, in riferimento all’attività elettrodermica, al tempo di transito ed alla frequenza cardiaca, dei due campioni nei vari tempi di monitoraggio. Un’analisi preliminare dei dati ha previsto l’applicazione del test “t” di Student per misure ripetute ai valori di attività elettrodermica, tempo di transito e frequenza cardiaca, ottenendo, in tal modo, i corrispondenti valori medi, la deviazione standard ed il successivo confronto statistico, con il valore di “p” ed il livello di significatività ottenuta in rapporto al singolo confronto (Tabella I, II,III).

Sono state considerate variazioni positive ed in accordo con l’ipotesi sperimentale la diminuzione della conduttanza cutanea, indice di un decremento di arousal presente a livello del SNC, un incremento del tempo di transito, che come precedentemente spiegato è indicativo di un abbassamento della pressione arteriosa, e la diminuzione della frequenza cardiaca.

Come è possibile evincere dalle Tabelle I, II e III entrambi i gruppi di field psychophysiology e laboratory psychophysiology hanno fatto registrare delle variazioni, dei valori dei parametri psicofisiologi considerati, altamente significative nel confronto T0 vs T6, p<0.001 nella maggior parte dei casi. Tutti i pazienti, infatti, hanno acquisito la capacità di rilassarsi ed hanno migliorato la loro capacità di recovery in rapporto a stimoli stressanti di vario tipo. Come dimostrano i dati riportati nelle Tabelle IV, V e VI la totalità dei soggetti ha mantenuto, anche se con lievi oscillazioni, i risultati ottenuti alla fine del trattamento nei follows-up successivi sino a 6 mesi dopo le 12 settimane, duranti le quali sono stati seguiti. Nel confronto T0 vs F4 i soggetti del campione in esame hanno mantenuto dei valori medi tali per cui il livello di significatività nel confronto è stato dell’uno per mille nella maggior parte dei casi.

Una volta effettuati i confronti statistici con il test “t” di Student, applicato ai singoli parametri psicofisiologici monitorati, si è proceduto alla realizzazione di un ulteriore raggruppamento dei dati.

Infatti, per ottenere una valutazione complessiva con tutti i dati contemporaneamente abbiamo applicato il test del segno, attribuendo un segno + ad ogni variazione statisticamente significativa ed in accordo con l’ipotesi sperimentale, un segno - ad ogni variazione statisticamente significativa ma in disaccordo con l’ipotesi sperimentale, mentre è stato attribuito il segno +/- ad ogni variazione non significativa da un punto di vista statistico (Tabella VII e VIII). Dall’analisi della Tabella VIII si evince che tutto il gruppo con i 12 soggetti ipertesi ha modificato in modo altamente significativo, test del segno p<0.001, i propri parametri psicofisiologici, per cui risultano avere valori più bassi di pressione arteriosa, frequenza cardiaca, accompagnati da un grado maggiore di rilassamento.

Il campione di soggetti ipertesi di controllo ha presentato un comportamento completamente diverso, mantenendo gli stessi valori in alcuni casi, procedendo verso una ulteriore slatentizzazione del quadro clinico con incremento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca in altri casi. Le variazioni o sono state minime e statisticamente non significative o verso un netto incremento della conduttanza cutanea per l’attività elettrodermica (Tabella IX). Il tempo di transito ha mantenuto valori più o meno costanti con tendenze al decremento, condizione, che come precedentemente spiegato, depone per un incremento della pressione arteriosa media (Tabella X). La frequenza cardiaca ha mostrato valori tendenzialmente più alti anche se in modo statisticamente non significativo, raggiungendo in due casi un netto incremento, valore di p<0.001 (Tabella XI).

Per avere una valutazione più analitica della risposta dei pazienti del campione seguito con trattamento riabilitativo ai diversi eventi del profilo di stress, abbiamo deciso di applicare il test del segno, andando a valutare le variazioni di qualunque entità in senso positivo o negativo che si sono verificate nei diversi parametri psicofisiologici in rapporto ai differenti “eventi”. L’attribuzione del segno + o - alle variazioni è stata effettuata sempre rispettando i criteri prima descritti.

Dall’analisi delle Tabelle XII, XIII e XIV risulta immediato rilevare come un trend positivo di cambiamento è stato presente dopo l’attività elettrodermica, nel tempo di transito e nel controllo della frequenza cardiaca.

Nella Tabella XV è stato applicato il test del segno in rapporto alle variazioni avute da tutti i soggetti del campione seguito con trattamento riabilitativo in riferimento al singolo evento presente nel profilo di stress. Anche in questo caso la significatività è stata molto elevata, con p<0.001 e p<0.01, in rapporto al parametro dell’attività elettrodermica, del tempo di transito e della frequenza cardiaca sia nel confronto T0 vs T6 che T0 vs F4.

Nella Tabella XVI ritroviamo i dati rilevati dal cardiologo, presso l’unità di cardiologia seguendo le modalità indicate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in un contesto ospedaliero differente dal setting abituale per i pazienti. Abbiamo applicato il test “t” di Student per dati appaiati ai valori medi della pressione arteriosa sistolica, diastolica ed della frequenza cardiaca rilevate all’inizio ed alla fine del trattamento riabilitativo. Anche in questi confronti le variazioni sono avvenute sempre in modo statisticamente significativo e coerentemente con l’ipotesi sperimentale con valori di “p” variabili tra il cinque per cento e l’uno per mille. La Tabella XVII presenta i dati riferiti ai valori di pressione arteriosa sistolica, diastolica e della frequenza cardiaca dei soggetti ipertesi di controllo. Le variazioni sono minime e in qualche caso statisticamente significative, ma con incremento dei valori pressori. Nel Grafico N. 1 abbiamo calcolato la variazione media in mmHg di pressione arteriosa sistolica e diastolica e la variazione media in bpm di frequenza cardiaca nei due campioni  a confronto, field-laboratory e gruppo di soggetti ipertesi di controllo. Si evince, facilmente, come le variazioni non sono state assolutamente rilevanti e significative nel gruppo di soggetti ipertesi non seguiti in trattamento riabilitativo. Nel Grafico N. 2 viene riportata una descrizione analitica delle variazioni che i soggetti dei due gruppi di field psychophysiology e laboratory psychophysiology hanno avuto in riferimento all’assetto lipidico, tra l’inizio e la fine del trattamento. Sono stati presi in considerazione i valori di Colesterolo totale, HDL, LDL, VLDL e Trigliceridi. E’ possibile notare un trend positivo verso la diminuzione quantitativa dei valori nella maggior parte dei soggetti del gruppo. Nel Grafico N. 3 sono riportati i valori riferiti all’assetto lipidico del campione di soggetti ipertesi di controllo: le normalizzazioni di valori sono più sporadiche. Nella Tabella XVIII abbiamo studiato la distribuzione di soggetti con valori fuori range dell’assetto lipidico del gruppo in trattamento e del gruppo di controllo attraverso l’applicazione del test del chi quadrato. E’ risultato che, mentre nel T0 non c’è una significativa diversa distribuzione dei soggetti con valori fuori range tra i due gruppi, questa differenza, invece, diventa consistente e statisticamente significativa nel T6, valori di “p” compresi tra il cinque per cento e l’uno per mille.

Il Grafico N. 4 e N. 5 mostrano la distribuzione dei punteggi che i soggetti del gruppo field psychophysiology e laboratory psychophysiology hanno ottenuto nei vari tempi T0, T6 e F4 ai test per la valutazione dell’ansia  di stato e di tratto (S.T.A.I. 1 e 2) e dell’atteggiamento depressivo (Zung). La Tabella XIX valutando la distribuzione nei due sottogruppi dei valori patologici mostra come tutti i soggetti tendono a migliorare il risultato alla fine del trattamento e non dimentichiamo come ciò è stato accompagnato da una riduzione della terapia ansiolitica che spesso questi soggetti effettuavano (Tabella XXII). I soggetti del gruppo laboratory psychophysiology hanno presentato in maggiore quantità all’inizio del trattamento valori patologici ai test per l’ansia e la depressione, normalizzandoli, però, in modo statisticamente significativo nel T6. Il Grafico N. 6 presenta i valori ottenuti dai soggetti ipertesi di controllo alla somministrazione dei tests per la valutazione dell’ansia e della depressione. La Tabella XX dimostra come in questi soggetti i valori non si sono normalizzati a distanza di tre mesi.

Interessanti sono stati i risultati sul piano dell’indagine psicologica che sono emersi in riferimento a

Questionario I-R, un test che ha reso possibile una più attenta categorizzazione, con precisa definizione quantitativa, di quella vasta fenomenologia che viene compresa sotto la comune definizione di aggressività. In modo specifico abbiamo studiato le componenti riferite alla propensione dell’individuo a reagire impulsivamente e polemicamente alla minima provocazione (Scala della Irritabilità) e la tendenza del soggetto a superare più o meno rapidamente i sentimenti di rancore e ritorsione connessi alle offese subite (Scala della Ruminazione). Quest’ultima scala mira a cogliere le componenti connesse all’elaborazione cognitiva che accompagna la condotta aggressiva. E’stato possibile rilevare come in tutti i soggetti è presente una difficoltà nella gestione di emozioni legate all’aggressività ed alla rabbia, ottenendo dei punteggi al Questionario I-R piuttosto elevati. Dalle loro risposte è emersa la tendenza a reagire impulsivamente, polemicamente ed offensivamente alla benchè piccola provocazione ed una propensione a superare difficilmente i sentimenti di rancore e i desideri di ritorsioni connessi alle offese subite (Grafico N. 7 e 8). In questo caso i soggetti dei gruppi seguiti, secondo la metodologia della field psychophysiology, così come quelli della laboratory pshychophysiology, hanno mostrato una tendenza al decremento dei ranghi percentili ottenuti alla somministrazione, ma senza raggiungere la normalizzazione di questi in modo statisticamente significativo (Tabella XXI). Anche i soggetti ipertesi del campione di controllo hanno rivelato punteggi elevati in rapporto alla condotta aggressiva, senza normalizzazioni dei risultati a distanza di tempo (Grafico N. 9).

In riferimento al profilo psicometrico dei soggetti presi in trattamento va sottolineato come non sono emersi tratti gravemente disturbati della strutura di personalità dei soggetti così come è risultato dalla somministrazione sistematica del Midlelesex Hospital Questionnaire (Crown & Crisp, 1966) e del Defense Mechanism Inventory (Fioriti, Fiumara, Gentili, 1993), un test quest’ultimo che studia i meccanismi di difesa che selezionano nel soggetto ciò che ricorda e determinano come si interpreta ciò che si percepisce. Invece, quasi la totalità dei 24 soggetti presi in esame al di là del trattamento ha riferito di avere avuto eventi stressanti di peso medio-grave negli ultimi 5 anni di vita, così come è emerso dalla somministrazione della Schedule of recent experience (Holmes & Rahe, 1967). Nella Tabella XXIII, infine, possiamo osservare come i soggetti non sottoposti            a   trattamento  riabilitativo  non  sono  stati  in  grado  di  apportare  alcuna  riduzione  alla  terapia

farmacologica, soprattutto in riferimento all’uso di benzodiazepine.

I dati riferiti al peso (Grafico N. 10) ci hanno fatto registrare un decremento di questo dato clinico nel 17% dei pazienti del gruppo seguito in trattamento riabilitativo, mentre non  è stata rilevata alcuna modifica nei soggetti non seguiti. Tali risultati ci fanno presumere che, anche se non ci sono state variazioni incisive in senso statistico, è probabile, però, che con diete più consone al soggetto ed adeguate alle sue richieste e con trattamenti più prolungati sia possibile ottenere risultati migliori.

 

 

DISCUSSIONE

 

Sulla base dei dati emersi dalla ricerca condotta ci sembra di potere affermare che i dati a nostra disposizione sono molto incoraggianti. L’analisi dei risultati completi dei due campioni di 12 pazienti ipertesi a confronto confermano l’ipotesi sperimentale della validità dell’applicazione del trattamento riabilitativo cognitivo-comportamentale in soggetti affetti da patologie cardiologiche psicosomatiche, come completamento ed integrazione del trattamento farmacologico, al fine di migliorare la qualità di vita, condizione indispensabile, come oramai indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per la stabilizzazione delle condizioni cardiologiche e, di conseguenza, per il prolungamento della vita dell’individuo.

La ricerca ha dimostrato che l’utilizzazione dell’assessment iniziale, in una condizione di baseline, offre l’opportunità per il clinico di attingere una notevole massa di dati, riferiti al funzionamento di parametri fisiologici e psicologici direttamente coinvolti nella determinazione dell’epifenomenologia clinica, i quali consentono di costruire una o più linee di base rispetto alle quali confrontare i progressi che si possono maturare nel corso dell’intervento terapeutico.

Il monitoraggio di base attraverso l’esecuzione del profilo di stress ci permette di avere un quadro immediato e completo dei parametri sui quali bisogna lavorare ai fini del possibile recupero sul piano riabilitativo, mentre l’applicazione del protocollo terapeutico-riabilitativo cognitivo-comportamentale si è rivelato di grande efficacia nella ottimizzazione del miglioramento clinico che può essere sortito in soggetti affetti da patologie cardiologiche psicosomatiche, come l’ipertensione arteriosa essenziale.

Dal punto di vista della profilassi, poi, ci sembra di potere affermare che l’assessment psicometrico-psicofisiologico, con il monitoraggio contemporaneo di tre parametri psicofisiologici e la valutazione psicometrica, appare di grande utilità già in una fase preliminare di valutazione della condizione clinica generale del paziente  per la individuazione precoce dei patterns disfunzionali.

La realizzazione di questo progetto di ricerca ha confermato che è possibile la individuazione precoce dei patterns disfunzionali correlati ad una patologia cardiologica psicosomatica, come l’ipertensione arteriosa primitiva, contribuendo, in tal modo, a chiarire ulteriormente la etiopatogesi complessa di queste malattie e ad operare una più ampia profilassi, attraverso lo studio sistematico di alcuni parametri nelle popolazioni a rischio.

D’altra parte lo sviluppo di metodologie affidabili e di facile impiego per il paziente nelle condizioni di vita reale, come quelle realizzate per il sottogruppo che ha seguito la metodologia della field psychophysiology, apre sempre più ampie prospettive sul piano terapeutico e riabilitativo per il miglioramento della qualità di vita e delle possibilità di parziale recupero con arresto della progressione negativa, che a volte questa patologia comporta nel tempo.

Sviluppare, infatti, interventi relativamente semplici, che aiutino il paziente ad autosservarsi sul piano psicologico e psicofisiologico e a modificare patterns di risposta disfunzionali, può essere di notevole sostegno alle terapie mediche necessarie e può giocare un ruolo fondamentale nella riabilitazione dei soggetti colpiti da affezioni cardiologiche psicosomatiche.

Non dimentichiamo come per i soggetti di entrambi i gruppi di field psychophysiology e laboratory psychophysiology è stato possibile eliminare dalla terapia farmacologica l’uso di benzodiazepine attraverso l’applicazione del biofeedback, beneficio che ha notevolmente motivato i pazienti ad applicarsi, ed in qualche caso anche a ridurre la terapia farmacologica antipertensiva specifica dato il miglioramento dello stato clinico.

La ricerca ha pienamente convalidato l’affidabilità dell’applicazione dell’uso di apparecchiature di field psychophysiology, che comunque hanno permesso al gruppo di ottenere risultati assolutamente comparabili con quelli dei soggetti che sono stati seguiti settimanalmente dal terapeuta in laboratorio. Ciò, naturalmente, ha richiesto come conditio sine qua non la capacità di forte collaborazione ed impegno da parte dei soggetti, che hanno dovuto pazientemente e scrupolosamente seguire in modo autonomo le indicazioni date in sede di monitoraggio. Dal nostro punto di vista la parità del rendimento terapeutico tra i due gruppi di field psychophysiology e laboratory psychophysiology rappresenta un grosso successo, poichè la validità del trattamento di field così strutturato ha dimostrato la possibilità per il medico di seguire contemporaneamente una maggiore quantità di pazienti, senza fare correre il rischio di compromettere il miglioramento che il soggetto in trattamento ne può derivare.

In conclusione ci sentiamo di potere confermare l’efficacia dell’applicazione del biofeedback e dell’approccio cognitivo-comportamentale come trattamento complementare nella terapia e prognosi di patologie cardiologiche psicosomatiche, come l’ipertensione arteriosa primitiva.

I dati di letteratura ci invogliano a lavorare verso la effettuazione di una diagnosi precoce e di un efficace trattamento medico nella terapia dell’ipertensione. Non dimentichiamo che l’intervento di medicina preventiva rappresenta il mezzo più importante, oggi, per ridurre l’incidenza di molte malattie cardiovascolari, per cui sempre più dobbiamo intensificare gli sforzi della ricerca per tentare la prevenzione primaria dell’ipertensione arteriosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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